I lieviti degli altri. Lieviti e fermentazioni spontanee al di là del vino (prima parte)

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È proprio il caso di dirlo: c’è fermento nell’aria. Anzi, c’è sempre stato. Un contadino pigia le uve, che dopo un po’ iniziano a fermentare e producono il vino. Una massaia impasta acqua, farina e un pezzo di pasta acida, ne nasce qualcosa che cresce e che cotto si trasforma in pane. Millenni fa, forse per caso, qualcuno scopre che il frumento accidentalmente bagnato si mette a produrre un succo dorato niente male.

Di cosa si tratta? Di lieviti e fermentazioni. Le fermentazioni spontanee accompagnano la storia dell’umanità da sempre. Nascono dall’incontro tra alcuni tipi di batteri presenti negli ambienti con una materia in cui sono presenti sostanze zuccherine o amidacee.

Veniamo a oggi. Non sempre le fermentazioni spontanee danno gli stessi risultati. A volte il pane lievita troppo e prende d’acido, a volte fermenta poco e diventa un mattone. A volte, inutile dirlo, il vino se ne va in aceto ai primi caldi di primavera… La ricerca negli anni ha fatto in modo che l’aleatorietà e la poca costanza nei risultati venissero ad essere trasformati in certezze quantitative. Tot lieviti selezionati reidratati inseriti nel mosto d’uva daranno un risultato ben determinato, tot lievito di birra in tot farina, darà una pasta ottimale dopo un tempo x alla temperatura y.

Così il lievito di birra regna incontrastato nella panificazione, e i lieviti selezionati vengono utilizzati nella grande maggioranza delle vinificazioni professionali. Da alcuni anni è nato e cresciuto un dibattito che si interroga se la standardizzazione dei processi e la ricerca di attivatori di lievitazione e fermentazione portino solo benefici o se tolgano qualcosa ai prodotti che ne nascono. È cresciuta così anche l’attenzione verso i metodi tramandati dal passato, verso le conoscenze, le tecniche e le pratiche che sembravano messe ormai in soffitta dalle tecnologie affermate. Le fermentazioni spontanee, i lieviti non selezionati, le lievitazioni con pasta madre, sono un mero esercizio di stile per fare solo un po’ di scena o danno veramente un’impronta particolare ai prodotti che ne nascono?

Questo articolo ed un altro che seguirà traggono spunto da alcuni incontri avvenuti durante la prima edizione di Semplicemente Uva, rassegna di vini naturali organizzata da Davide Paolini a Milano. Ecco quindi il racconto dell’incontro con “i lieviti degli altri”, ossia con alcuni produttori che, in campi differenti da quello del vino, hanno fatto la scelta di utilizzare i lieviti non selezionati. Prima tappa, l’aceto.

 

Andrea Bezzecchi – Acetaia San Giacomo (Novellara, Reggio Emilia)

Andrea è un giovane produttore di Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio, pieno di idee e di voglia di conoscere sempre meglio la complessa e delicatissima arte che trasforma l’uva in una sostanza speciale qual è il Balsamico Tradizionale. Il punto di partenza – ci spiega – per creare l’aceto balsamico tradizionale (la dizione “tradizionale” comporta tra l’altro un invecchiamento minimo di 12 anni in carati) è il mosto d’uva. Si parte da uve classiche della provincia di Reggio (lambrusco, ancellotta, trebbiano le principali), che vengono pigiate e il cui mosto viene messo a cuocere lentamente, a 85 gradi a fuoco diretto, per una durata di 12 ore (questo tempo deriva direttamente dai ritmi ancestrali delle lavorazioni agricole: 12 ore è l’intervallo tra una mungitura e l’altra). Dopo tale tempo, la quantità iniziale di mosto si è ridotta del 30% ed arricchita in zuccheri (con una cottura ulteriore, il tasso zuccherino crescerebbe troppo per far lavorare correttamente i lieviti; con 30 ore di cottura si ottiene la Saba). Dopo 12 ore gli zuccheri (glucosio e fruttosio) hanno subito solo un principio di caramellizzazione e contemporaneamente il liquido è stato “pastorizzato”.

A questo punto, con 25-27 gradi Babo di concentrazione zuccherina, il mosto è appetibile per i lieviti. Ma da dove provengono, visto che quelli presenti naturalmente sulle bucce dell’uva sono stati neutralizzati dalla cottura? Non ci sono infatti inoculi pilotati. Il mosto riceve i lieviti che si trovano negli ambienti circostanti, e che fanno partire la prima fermentazione dell’aceto tradizionale, ossia la fermentazione alcolica. Il processo è molto lento (data la grande concentrazione zuccherina, i lieviti faticano assai a lavorare) e si protrae generalmente per tutto il periodo invernale. Al termine di questa prima fermentazione il mosto ha circa 6-8 gradi alcolici, e ancora un notevole tenore zuccherino. È quindi pronto per il processo di acetificazione vera e propria, che inizierà con l’inserimento in una botte grande, in cui è rimasto parte del liquido dell’anno precedente. La botte, chiamata badessa, è quindi un ambiente ricchissimo di acetobacter aceti, e svolge la funzione di “pilotare” il mosto verso l’inizio dell’acetificazione.

Il processo è lunghissimo, quasi interminabile, sicuramente affascinante. Tutto il patrimonio genetico conservato negli anni all’interno della badessa contribuisce alla nascita del nuovo aceto; le condizioni ambientali favoriscono tutto questo in quanto le botti vengono mantenute scolme e riposte in solai, caldi d’estate e freddi d’inverno (il contrario del vino!).

Ecco quindi la seconda fermentazione, che più propriamente può esser detta bio-ossidazione. Inizia il giro delle “batterie”, veri tesori familiari che si tramandano di padre in figlio. Le botti, di dimensioni man mano più piccole in ragione dell’evaporazione, favoriscono la trasformazione dell’alcol etilico prodotto dalla prima fermentazione in acido acetico. I profumi arricchiscono, e il liquido passa di anno in anno attraverso i caratelli di varie essenze (rovere, castagno, ciliegio frassino, ginepro, gelso) acquisendo un sempre maggiore patrimonio aromatico, e contemporaneamente riducendosi in volume.

È così che dalla massa iniziale di mosto d’uva, al termine di un affinamento minimo di 12 anni (ma si può arrivare anche ad aceti di oltre 25 anni di vita), si ricava un preziosissimo concentrato dai profumi e dai sapori straordinari. Andrea aveva portato in degustazione un Tradizionale di 24 anni, e la gamma dei profumi era indescrivibile, spaziando dai sentori fruttati a quelli caramellati a quelli resinosi.

C’è da dire, che oltre alle ovvie differenze di prezzo con gli aceti balsamici non tradizionali industriali, prodotti in quantità enormi negli ultimi anni, il tradizionale ha poco da spartire: i balsamici di largo consumo infatti (a parte il fatto che anche il termine “balsamico” nel loro caso è fuorviante), per esser prodotti in tempi rapidi, nascono da mosti cotti molto più a lungo delle canoniche 12 ore e quindi molto più concentrati in partenza. Cosa che finisce per fare una selezione ristretta delle famiglie dei lieviti che sono in grado di lavorare con livelli così alti di concentrazioni zuccherine. Possono lavorare principalmente alcune famiglie di batteri che si cibano di fruttosio. Nessuno attacca il glucosio, che quindi rimane in concentrazioni altissime. E la conseguenza è che quegli aceti hanno una chiara tendenza a cristallizzare, cosa che invece nei tradizionali (se lavorati non spingendo la concentrazione a scapito dell’acidità) non accade.

Oltre al Balsamico Andrea ci ha fatto conoscere anche alcuni campioni di mosti da singolo vitigno che avevano subìto una breve cottura, per far apprezzare la lentezza con cui il processo di acetificazione viene portato avanti. Anche senza aggiunte di solforosa i campioni di vini di varie provenienze (spergola, trebbiano, pigato, timorasso…) raggiungevano valori apprezzabili di acetica solo dopo molti mesi dall’inizio dell’ossidazione in botti scolme. Segno di una necessità legata a tempi non controllabili e non comprimibili. Come dire che per ogni cosa c’è un tempo, e che i ritmi imparati in secoli di storia contadina, non possono essere stravolti senza perdere l’anima di un prodotto. Che proprio nel rispetto del tempo ha la sua cifra più misteriosa e bella.

Acetaia San Giacomo, Strada Pennella, 1  – 42017 Novellara (RE)
Tel. 0522 651197
www.acetaiasangiacomo.com

www.fienileinfermento.com (il blog di Andrea Bezzecchi)

Nelle foto: uva di Lambrusco Marani, cottura del mosto, fermentazione alcolica, botti in acetaia, batterie di caratelli di varie essenze e dimensioni, aceti da vini monovitigno.
Le foto (tranne le ultime due) sono state gentilmente fornite da Andrea Bezzecchi.

 

Paolo Rossi

Paolo Rossi (p.rossi@acquabuona.it), versiliese, laureato in lettere, lavora a Milano nel campo editoriale. Nel vino e nel cibo ricerca il lato emozionale, libertario, creativo. Insegue costantemente la bottiglia perfetta, ben contento che la sua ricerca non sarà mai appagata.

3 COMMENTS

  1. Scusa Paolo ma non mi è chiara la dinamica del processo industriale. Tu dici che aumentando la concentrazione degli zuccheri poche famiglie di batteri possono sopravvivere.. forse volevi dire lieviti? Dato che da quello che dici sopra i batteri aceteci ( Acetobacter ssp.) ossidano l’etanolo ad acido acetico ma non trasformano gli zuccheri direttamente in ac. acetico.

  2. Hai ragione Lamberto, errore mio. In quel passo, trattandosi di fermentazione alcolica, dovevo scrivere “poche famiglie di lieviti” e non di batteri. Sono i lieviti che fanno la fermentazione alcolica creando il substrato per il successivo lavoro dei batteri acetici.

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