I Ribelli del bitto. Quando un formaggio diventa un baluardo contro l’omologazione. Con un’intervista a Michele Corti

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È in libreria da pochi mesi, e si è segnalato come un libro incisivo, piacevole da leggere e assolutamente utile per comprendere le vicissitudini attorno a uno dei formaggi più celebrati d’Italia e non solo: si tratta del libro I ribelli del bitto. L’autore, Michele Corti, è docente di sistemi zootecnici e pastorali montani presso l’Università di Milano e esperto ruralista. In questo suo volume, edito da Slow Food Editore, ricostruisce per intero la storia e le evoluzioni di quello che è considerato un gioiello di cultura casearia, l’unico formaggio al mondo capace di invecchiare in alcuni casi oltre i quindici anni. E per parlare di bitto non ci si può fermare al semplice dato di fatto: il bitto è sì un formaggio, ma anche e indissolubilmente un intero mondo di pratiche sociali e storiche che si sono definite e stabilizzate nel corso dei secoli con l’apporto di una intera comunità alpina. Grande storia, quindi, e un prestigio enorme legato al suo nome. Talmente tanto ambito da far svegliare gli appetiti di un mondo produttivo – in molti casi tutt’altro che tradizionale – che ha intuito nel nome bitto un elemento di traino da sfruttare grazie alla sua aura di “tipico” e di “tradizionale”.

Michele Corti inizia il suo volume in medias res, dall’ultima campagna di alpeggio, quella dell’estate 2011, per raccontare, grazie all’incontro con i casari, gli alpeggiatori e i pastori, la versione di quei produttori di bitto che hanno detto no, che non si sono piegati alle logiche del mercato. A una DOP che, oltre ad allargare a dismisura la zona di produzione a tutta la provincia di Sondrio, ammetteva pratiche assolutamente non tradizionali e peggiorative della qualità del formaggio (come ad esempio l’integrazione del pascolo con foraggi e l’uso di fermenti selezionati), questi produttori hanno risposto con un secco rifiuto, uscendo dalla denominazione e identificandosi come produttori di “Bitto storico”.

Per capire meglio cosa è il bitto è necessario inquadrare geograficamente i luoghi della recente contesa. Siamo in Valtellina, grande valle alpina solcata dal corso dell’Adda. A nord le alpi Retiche, a sud le Orobie. Il versante retico è quello più assolato, è quello delle famose denominazioni dei vini valtellinesi (Sassella, Grumello, Inferno, Valgella, Maroggia). Su quelle montagne il pascolo produceva tradizionalmente il burro, oltre a formaggi semigrassi. Il versante orobico, nel comprensorio di Morbegno, è storicamente un luogo di contatti con i territori vicini: la val Brembana e il bergamasco verso sudest, e la Valsassina verso sudovest. Qui negli alpeggi storicamente non si fa burro, ma formaggio grasso di alto pregio. In particolare, a cavallo del Pizzo dei tre Signori, tra le attuali province di Sondrio, Lecco e Bergamo, una zona brilla per la qualità dei formaggi dei suoi alpeggi, la zona dove si fa il formaggio bitto. A prendere in affitto gli alpeggi in quota, di solito di proprietà comunale o ecclesiastica, sono principalmente le famiglie originarie di un paio di valli specifiche, dove l’arte di fare il formaggio si è sviluppata in modo peculiare: le valli in cui scorre il torrente Bitto, che nel suo corso alto si ramifica nella val Gerola e nella valle di Albaredo. Un focolaio di imprenditori (in gergo, “caricatori d’alpe”), pastori e casari che nei secoli hanno saputo sviluppare i saperi e le pratiche per creare un formaggio unico. E che hanno ben compreso soprattutto le pratiche per il buon mantenimento dei pascoli di montagna, coscienti del fatto che solo da un pascolo ben curato negli anni nasce un’erba ottimale per produrre il bitto.


Tutto bene finché nel 1996, con l’iter che porta all’istituzione della DOP Bitto, non si comincia a pensare di estendere la zona di produzione del bitto a tutta la provincia di Sondrio, sia nel versante orobico, sia in quello retico, e ad est fino a Bormio, in zone dove non si era mai fatto quel tipo di formaggio. “Bisogna farne tanto, bisogna fare massa critica”, si diceva. E negli anni, con successive modifiche, si è arrivati anche a tollerare l’integrazione del pascolo naturale con prodotti foraggeri non d’alpeggio e a ventilare l’uso di “fermenti autoctoni selezionati”, oppure consentire di non utilizzare più la quota di latte di capra (il bitto è invece per tradizione composto da un 90% circa di latte vaccino più un 10% di latte di capra). 
Lo scopo, non troppo velato, era di sfruttare la fama di un prodotto prestigioso perché facesse da richiamo a prodotti da grandi numeri quali il formaggio casera, prodotto nelle grandi latterie di fondovalle. Ma tra l’uso dei mangimi, l’abbandono della vacca bruna alpina a favore dell’onnipresente e produttivissima frisona (inadatta alle pendenze montane), l’abbandono della quota di latte caprino… il bitto rischiava di diventare un nome svuotato di sostanza.

Per questo un manipolo di quattordici produttori dell’area storica ha deciso fin dal 1996 di dar battaglia a quest’idea del bitto dal disciplinare “allargato”, per arrivare nel 2005 ad uscire addirittura dal consorzio della DOP. Molti li hanno tacciati di arretratezza, di essere dei trogloditi contrari al progresso e così via, ma il loro discorso è sempre stato di una chiarezza lampante. “Nessuno vi obbliga a fare bitto. Se volete usare i mangimi e farlo in posti dove non è mai stato fatto, semplicemente non chiamatelo bitto”, era la loro risposta. Ma quel nome tira molto. Ecco perché il consorzio ufficiale di tutela del bitto e casera non è mai sceso a patti, negando il riconoscimento, all’interno della dop, di una sottodenominazione specifica, che tutelasse il bitto storico delle valli del Bitto.

Bellissimo, nel libro, il racconto dell’atmosfera che regna nei pascoli estivi d’alta quota, con testimonianze forti, dall’incontro con Mosè Manni, il decano dei casari storici, a quello con Cristina Gusmeroli, 17 anni e già casara all’alpe Orta Soliva. Perché nel mondo dei produttori tradizionali del bitto, ogni ruolo è bene definito, e il casaro è uno solo: su ogni forma di bitto storico è impresso il nome dell’alpeggio e l’anno di produzione. Di ogni forma si sa la provenienza e il nome e cognome del casaro che l’ha prodotta. 
Il libro passa poi a ricostruire l’intera storia del bitto, non fermandosi a un mero elenco di fatti, ma arricchendo la narrazione di utili riferimenti al contesto sociale, geografico, storico, in modo da inquadrare con grande precisione i fattori che hanno fatto sì che in quella determinata zona venisse a svilupparsi un sistema socioeconomico complesso che ha dato vita a uno dei migliori formaggi al mondo. La parte del leone, nella narrazione, la fanno ovviamente gli ultimi anni, quelli in cui il bitto ha rischiato fortemente di essere snaturato per motivi economici. Fortunatamente, oltre al battagliero capofila dei ribelli, Paolo Ciapparelli, una serie di personaggi del mondo dell’enogastronomia si sono mossi a sostegno della causa del bitto tradizionale, tra cui Francesco Arrigoni, Paolo Marchi e Licia Granello, e fondamentale è stato l’appoggio deciso di Slow Food, che ha incluso nei suoi Presìdi il bitto storico, dando supporto e visibilità ai produttori nei momenti più difficili delle lotte “ministeriali” a colpi di carte bollate e visite dei NAS.

Il libro si “beve” tutto d’un fiato, è sufficientemente tecnico per far capire esattamente il nocciolo della questione, ed ha un respiro ampio che passa dall’intervista ai protagonisti, alla narrazione, al racconto storico. Sempre giocato sul coinvolgimento personale dell’autore, che da semplice osservatore di una vicenda si è trasformato, con il tempo, in un attore attivo e partecipe della lotta dei Ribelli del bitto. Tanto da aprire anche un blog, “Ribelli del bitto”, dove si possono seguire costantemente le notizie e gli sviluppi di questa “battaglia sugli alpeggi”.

Intervista a Michele Corti

Per l’Acquabuona abbiamo contattato l’autore del libro, Michele Corti, per fargli alcune domande intorno al bitto e non solo.

-Il suo libro è molto attuale, ma vi si riscontra una lunga fase di studio e di conoscenza delle pratiche dei “caricatori d’alpe” del bitto: da quanto tempo segue queste vicende, e quanto ha impiegato nella stesura?

È da dieci anni che me ne occupo. Nel 2007 era uscito su Caseus, la rivista di formaggi artigianali e di pascolo, uno “speciale bitto” con un mio articolo che riassumeva la vicenda Bitto: una storia esemplare, una questione aperta. Me ne occupavo, però, già da alcuni anni. Ho accumulato parecchio materiale anche per la stesura di un libro Il formaggio Val del Bitt edito da Ersaf (ente regionale). Gli aspetti “scabrosi” e più attuali della vicenda, però, non avevo potuto trattarli per censura politica. Per il nuovo libro ho comunque eseguito uno studio sistematico su tutto quanto pubblicato sul Bitto compresi gli articoli di quotidiani e riviste. La stesura ha richiesto 3-4 mesi ma tenendo presente che molto materiale ho dovuto solo adattarlo.

-Nella battaglia del bitto, qual è lo stato dell’arte al momento? Il bitto storico è rientrato nella DOP? Si riuscirà ad avere una sottodenominazione che distingua tra bitto e bitto storico?

È rientrato senza cedere nulla in termini di principi. La richiesta della sottodenominazione rimane e non sarà mai abbandonata. Notiamo che mentre la burocrazia, legata alle lobby industriali, continua a fare muro, la politica inizia a comprendere che fare la guerra al formaggio più prestigioso della regione è un errore strategico imperdonabile

-Per dare un’idea di quali sono i “pesi” in campo: a quante forme ammonta la produzione annua di bitto storico e quella di bitto della “zona allargata” della provincia di Sondrio?

Tremila forme (non tutte poi arrivano però alla qualifica “storico”) contro ventimila.

-Si è parlato, nelle modifiche del disciplinare del bitto, di aggiunta di “fermenti autoctoni” al latte; ma il formaggio non si fa con latte, caglio e sale? E questi fermenti di cui si parla cosa sono?

La menzione “autoctono” serve a nascondere il fatto che si tratta sempre di “bustine” di fermenti selezionati e liofilizzati aggiunti al latte. Appartenenti a pochissime specie di bacilli termofili. Nulla a che vedere con la diversità batterica di specie e generi “selvatici” che caratterizza ogni alpeggio. Nel bitto storico si “allevano” solo i batteri che sono già presenti naturalemente.

-Una domanda scomoda: perché in Valtellina ci sono così tanti esempi di problematicità legate a prodotti tipici in cui la tradizione viene usata come “immagine” per sdoganare prodotti industriali (bresaola la cui materia prima proviene dal Sudamerica, grano saraceno per i pizzoccheri coltivato in paesi extraeuropei, bitto con disciplinare “allargato”…)?

È una linea strategica che a ruota della bresaola l’industria ha abbracciato pensando di replicare il modello. Funziona sulla dabbenaggine del consumatore e sulla “compressione” o messa fuori gioco delle produzioni autentiche a cui quelle industriali si ispirano.

-Il bitto è un formaggio che comunica da sempre con altri formaggi. Primo fra tutti il casera, ma anche i formaggi della Valtaleggio, il Branzi (che pur nascendo nella val Brembana, in provincia di Bergamo, ha storicamente molto a che spartire con il bitto), la mascherpa. Più che un formaggio che divide, non dovrebbe essere considerato un formaggio che unisce diverse culture?

Il casera è una invenzione dell’industria. Esistevano tanti tipi di formaggi semigrassi invernali con le loro specificità locali. Quindi casera e bitto storico non hanno alcuna relazione. Invece il Branzi che oggi è semigrasso e prodotto in inverno una volta era … il Bitto (veniva chiamato Branzi perché era commercializzato nella località di Branzi ma era principalmente prodotto in alpeggi del versante orobico valtellinese con tanto di latte di capra). Anche il formai de mut è strettamente legato al Bitto/Branzi. Questi formaggi che sono stati definiti “principi delle Orobie” uniscono veramente tre versanti (valtellinese, lecchese e bergamasco) in nome di una complessa civiltà casearia fatta di formaggi grassi e stracchini (compresi i tondi erborinati). Basti pensare che in alta Val Brembana gli allevatori transumanti che scendevano in inverno in pianura, in estate producevano Bitto/Branzi e in inverno stracchini (quadri o tondi).



- Tra i vari personaggi di cui parla nel libro, ci sono molti giovani. Cosa li spinge a intraprendere il mestiere di casaro o di pastore d’alpeggio oggi, ai tempi di Facebook?

L’orgoglio di appartenere ad una grande tradizione, la soddisfazione di impegnarsi in un lavoro duro ma che fornisce grandi soddisfazioni. Ogni forma di bitto storico è letteralmente firmata dal casaro, che ci mette la faccia. Diventa una specie di artigianato artistico. Nel tempo di Facebook questi casari sono anche su Facebook.


-Internet ha aiutato la causa del bitto storico? Ha avvicinato realmente la gente a conoscere questo mondo, o per molti si tratta di infervorarsi per un’idea romantica, salvo poi dimenticarsi di tutto e passare alla prossima battaglia virtuale?

Le storie che vengono da lontano – ho cercato di dimostrarlo – che possiedono una straordinaria capacità di creare suggestioni, di fabbricare simboli, di accalorare e anche di dividere in “partiti” non svaniscono facilmente. Internet è un supporto non solo alla diffusione delle informazioni sulla vicenda ma anche molto di più. Sono state raccolte 4 mila firme online a sostegno del bitto storico, ogni tre mesi le forme di bitto storico “adottate” vengono fotografate e i “papà” le possono vedere via internet. Possiamo dire che il legame tra bitto “arcaico” e internet è strutturale. Forse senza Internet non ci sarebbe più il bitto.

-Parliamo un po’ di soldi. A Milano, in una salumeria ben fornita, lo si trova a 46 euro al chilo [Bitto storico Orta Soliva 2010, ndr], mentre il bitto DOP si trova a 26 euro. Il bitto storico non costa poco. Perché vale la pena di affrontare quel costo?

46 è il minimo perché può andare anche a 80 se ha due anni o più. Tutto dipende dall’annata. Il consumatore di bitto deve avere un po’ di conoscenze, come uno che compra una bottiglia di vino da 100 €. La differenza tra i bitti si vede tanto più passa il tempo. Il costo superiore vale la pena affrontarlo se si è certi che quello che ti vendono è Bitto storico. La garanzia è la forma intera. Se porzionato, comunque reca il marchio dei Presidi Slow Food. Il Bitto da 26 vale meno la pena di quello da 80 perché non offre più soddisfazione di una fontina da meno di 20. Il Bitto storico invece si distacca completamente. Ma, ripeto, bisogna andare alla ricerca di quello di 2, meglio 3 anni. È come il Barolo.

-Parliamo anche di “valore” partendo da un esempio: alcune gelaterie molto in voga propongono il 
loro gelato a 25 euro al chilo; se tanto mi dà tanto, pensando ai pastori in alpeggio a 2000 metri… Questo formaggio e altri formaggi, dovrebbero costare centinaia di euro al chilo…

Il mercato non è ancora maturo per accettare una forbice così ampia come esiste nel vino ma anche in altri prodotti ben proposti (vedi appunto la differenza tra gelato artigianale e industriale). In ogni caso il Bitto a 80-100 € si vende, e in Cina stanno vendendo un bitto storico di 15 anni a 247 €. Quello che sta facendo il bitto storico nel mondo dei formaggi è creare una cultura simile a quella del vino, facendo comprendere al consumatore che con grandi cure, tempo, competenze, abilità si ottengono prodotti con caratteristiche qualitative non confrontabili con il prodotto di massa. È come dire Tavernello e Brunello di Montalcino. I produttori di formaggi (artigianali) dovrebbero fare un monumento al bitto perché sta spianando la strada ad una nuova concezione del consumo di formaggio: formaggio da meditazione.

-Proprio per non rimanere al virtuale; ci dica cosa deve fare un viaggiatore che voglia conoscere il bitto storico. Quando andare, dove andare, quali percorsi montani fare, dove comprare il bitto storico.

Semplice: Centro del Bitto storico a Gerola alta. Da Morbegno 15 km di salita, una strada un po’ tortuosa ma ne vale la pena.
I ribelli del bitto. Quando una tradizione casearia diventa eversiva. Di Michele Corti, prefazione di Piero Sardo, Slow Food Editore, 2011. 191 pp, 14,50 €

Il blog di Michele Corti:
http://ribellidelbitto.blogspot.com
Ruralpini, l’altro blog di Michele Corti:
http://www.ruralpini.it

Il sito del Consorzio salvaguardia bitto storico-Heritage Bitto
http://www.formaggiobitto.com
Per vedere le forme di bitto con dedica in stagionatura: cliccare qui.
Per una mappa dei luoghi: Visualizza la mappa

Ringrazio Michele Corti per la disponibilità e per aver concesso l’uso delle immagini fotografiche.

 

Paolo Rossi

Paolo Rossi (p.rossi@acquabuona.it), versiliese, laureato in lettere, lavora a Milano nel campo editoriale. Nel vino e nel cibo ricerca il lato emozionale, libertario, creativo. Insegue costantemente la bottiglia perfetta, ben contento che la sua ricerca non sarà mai appagata.

8 COMMENTS

  1. Ogni volta che Corti ripercorre le prime vicende del Bitto e racconta di chi ha sostenuto quella causa, viene colto sempre dalla medesima (e oserei dire ridicola) “amnesia”: dimentica chi per primo (lo dicono le date degli articoli pubblicati) ha dato risalto a quei fatti, vale a dire il sottoscritto.
    E a fare una figuraccia è sempre e solo lui.
    Complimenti invece ad Acquabuona, pur nei limiti di questa pecca, indotta da chissà quali motivi.

  2. Visto che nel messaggio precedente non è stato visualizzato l’url del mio portale, ne approfiitto per inserire qui quello che porta in esso al risultato della ricerca “Bitto” (52 risultati tra cui alcuni articoli dello stessi Corti): http://www.qualeformaggio.it/index.php?searchword=Bitto&ordering=newest&searchphrase=all&option=com_search
    Antecedentemente a questi, almeno una dozzina di miei pezzi che dedicai alle vicende del Bitto sul mio bimestrale cartaceo Cheese Time sin dal lontano 2003. Leggendo quelli, vari e conosciuti giornalisti, alcuni citati nel vostro articolo di questa pagina, dettero spazio alle cronache riguardanti il noto formaggio valtellinese

  3. Caro Stefano Mariotti, grazie del link al suo sito, ogni contributo per conoscere la storia e le vicende del bitto è senza dubbio interessante. Meno interessante, per i lettori dell’Acquabuona, è la disputa su chi sia stato il primo a difenderne la causa. Anche perché, vista dall’esterno, da semplici osservatori (e consumatori) ne viene fuori l’impressione di un fronte non unito nell’interesse principale: che nello specifico è la difesa del bitto storico e di tutti gli attori che lo fanno, in primis caricatori d’alpe, pastori, casari.

  4. Infatti il fronte non è unito, Paolo, perché esistono persone che vorrebbero raccogliere sia i propri meriti che quelli altrui. Per essi, celare il ruolo e l’operato dell’altro significa occupare agli occhi del pubblico una posizione più meritevole in quanto meno condivisa con altri soggetti.

  5. Mi sembra, “mutatis mutandi” di vedere la stessa storia di Montalcino…… una storia che si ripete ogni volta che l’industria cerca di impadronirsi del lavoro dell’uomo.

  6. A Montalcino, che io sappia, alcuni produttori di grandi dimensioni hanno voluto (o avrebbero voluto: non so come sia andata a finire) introdurre vitigni estranei a quella realtà per andare incontro al cosiddetto “gusto internazionale”. Nel caso del Bitto, invece, il consorzio della Dop ha voluto consentire l’uso dei mangimi al pascolo (pensate che contraddizione: portare le bestie in alpeggio e dar loro mangimi!) in quanto molti produttori nel periodo invernale (quando fanno Casera Dop) danno mangimi (e le bestie di abiuano a quell’alimentazione: cambiarla di colpo dà luogo a problemi metabolici), e ha autorizzato l’uso di fermenti selezionati (se fosse un vino parleremmo di lieviti). Quest’ultima concessione è stata introdotta per azzerare i difetti, senza curarsi che così facendo si penalizza il risultato sia dal punto di vista aromatico (fiori ed erbe di pascoli alpini, ciao!) che della stagionatura. Inoltre, a differenza dei produttori del Bitto “storico” gli aderenti al consorzio (quelli che marchiano Dop) possono escludere il latte di capra, che è sempre stato usato e che è decisivo sia dal punto di vista aromatico che della stagionatura.

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