Azienda agricola L’Oro del Daino. Semplice amore per la terra

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Giù per l’Adriatica: Cesena, Rimini, Riccione, Cattolica. Uscire di notte in quella striscia brulicante di divertimento e dirigersi verso monte anziché verso mare, ti proietta quasi subito in un mondo silenzioso, dove sono i campi, e non le insegne, a chiamare. In giugno qua la terra parla la lingua del grano, nell’attimo in cui il verde cede il passo al dorato, e si sente – anche al buio – il profumo caldo della paglia. Venerdì notte, saliamo verso le colline della Romagna, verso Saludecio, e poi verso Mondaino. Entriamo in macchina nel cuore-gioiello antico di questa cittadina, stupendoci che si possa varcare a motore acceso il ponte levatoio, fin dentro il salotto che è la piazza circolare di Mondaino. Che meraviglia di posto, vien da dire di queste strade in cima ai colli, con valli e valli e campi, e boschi e calanchi intorno. La notte è per lo stupore, poi la mattina per conoscere.

Usciamo in strada dopo il caffè e il sabato ci dà un cielo sereno e le viuzze tranquille. Via Roma è l’asse principale di Mondaino, e ti senti ancor più a casa, con le chiacchere colorate di romagnolo che escono qua e là dalle finestre delle case. Siamo qui per incontrare Mirko Delbianco e i suoi prodotti. L’avevamo conosciuto per caso l’anno scorso, al mercato dei contadini di Pesaro. “Io sono nei campi, passate prima al negozio in paese, dove c’è mia moglie”, ci aveva detto il giorno prima. Lo spaccio de L’Oro del Daino, così si chiama la sua azienda, è proprio in via Roma. Entriamo, e ci viene incontro Cristina, con in braccio Anna, un fagottino di due mesi, e un piccolo terremoto di un paio d’anni, Diego. Una breve presentazione e ci sentiamo già a casa. Qua sembra più facile. I prodotti dell’azienda sono tutti esposti qui: farine, cereali, legumi, miele. Le farine che ha sono prevalentemente da grani antichi: farro dicocco, farro spelta, khorasan, alcune varietà di grano tenero… Per chi è appassionato di pane fatto in casa questo posto è una cuccagna, in cui si sa con certezza l’origine dei grani e il tipo di coltura praticata. Qui la filiera è molto semplice: fanno tutto Mirko e Cristina. Semina, raccolta, macinatura, confezionamento. Per questo vari GAS (gruppi d’acquisto solidali) e ristoranti comprano direttamente da loro.

Giusto il tempo di fare un po’ di foto, e poi si parte per i campi; con un serpente di strada ripida si scende sotto al paese, fino in località Montespino. Mirko ci aspetta fuori dalla cascina, si è appena tolto la tuta gialla per le api: ha l’aspetto di uno che non si ferma mai, e infatti c’è giusto il tempo per un bicchier d’acqua al fresco, poi si parte verso i campi.

Lui è già partito da subito, a raccontare la sua terra. Ha ripreso in mano i terreni dei genitori, che facevano altri mestieri, e si è buttato a capofitto a coltivarli. Fa un’agricoltura tradizionale, con la rotazione delle colture: non usa concimi di provenienza esterna, e quindi deve alternare, dopo un anno o due di cereali, alcuni anni di leguminose che reintegrano l’azoto, come i ceci, le cicerchie, le lenticchie, l’erba medica e il trifoglio. «Coltivo in tutto circa venticinque ettari di terra, e cerco di differenziare il più possibile: se fai monocoltura e ti imbatti in un anno sbagliato, sei rovinato. Quest’anno ad esempio il grano khorasan (grano duro antico, che una multinazionale ha reso famoso col nome commerciale registrato di Kamut, ndr) non è venuto bene, ho dovuto trinciarlo. Ma avevo anche il farro, il grano tenero, i legumi, il miele… È così che ti salvi, se sei piccolo».

Entriamo in un campo di trifoglio, una leguminosa che con le sue radici reintegra l’azoto nel terreno. «Il primo taglio l’ho trinciato direttamente sul campo, per dare più nutrimento alla terra. Poi gli altri li tengo per un paio di capre che abbiamo», racconta. Lo seguo a fatica, lui racconta e intanto supera un ruscello in secca, è già sull’altra sponda e mi indica un campo che copre mezza collina, bellissimo. «Ecco, questo è il farro dicocco. È un farro che assomiglia al grano duro, mentre l’altro farro, lo spelta, ha caratteristiche più simili al grano tenero». La terra inizia a screpolarsi per la siccità, come è normale in questo mese, e le spighe, ancora verdi, lasciano intravedere che passeranno a breve a colorarsi d’oro. «Sono tre ettari di campo, qui. Sembra grande ma considera che è una terra poco fertile, produce circa 30 quintali a ettaro. Coi grani moderni in terreni di pianura puoi arrivare a 150 quintali… Capisci che ci sono differenze di costi enormi tra la nostra agricoltura di collina e quella delle grandi estensioni. Qua vai solo col cingolato, là prendi un bestione da 300 cavalli, che ti fa tutto il lavoro senza tanti problemi. Qui uso la rotazione delle colture, là passano il diserbante e il fertilizzante azotato… Questo frumento è un’altra cosa. Ma come fai a farlo capire alla gente?».
Parla e cammina, non si ferma un attimo. Stiamo di nuovo attraversando il campo di trifoglio fiorito, e Mirko mentre parla si china sui fiori a controllare se ci sono le sue api. Poi saliamo dietro la cascina, nel laboratorio del miele. Entriamo, e ci investe un profumo indescrivibile. In una stanza, Mirko ha raccolto i telai a maturare, il frutto del lavoro dei suoi cento alveari. «Questa è la raccolta dell’acacia. Prima di smielare, i telai vanno tenuti alcuni giorni a maturare, perché l’umidità si abbassi e raggiunga il giusto grado. Poi si fa la smielatura». Prende un telaietto, toglie la cera e ne estrae un po’ di miele; poi con un rifrattometro ci fa il calcolo in diretta: ancora pochi giorni e sarà il momento della smielatura.
«Ecco qua, questo è il chewing-gum dei poveri!», ci dice porgendoci dei pezzetti di cellette. «C’è il dolce del miele, e la cera puoi andare avanti a masticarla fin che vuoi!» Il gusto del miele fresco è indescrivibile, lascia spiazzati, in quella stanza che profuma di fiori d’acacia come mai sentito prima. Poi si assaggia una sua specialità, il “nocciolino”: miele con pasta di nocciole piemontesi, una goduria spalmabile piena di energia… pulita.

Nella stanza accanto Mirko ci mostra con orgoglio il suo mulino a pietra. Con quello, a seconda delle necessità, macina le sue farine, e lavorando col burattatore regola la finezza degli sfarinati e il grado di “abburattamento”. «Non faccio mai la farina bianca; per non perdere sostanze nutritive, la lascio semintegrale: né troppo raffinata, né troppo scura».

Ma siamo stati fermi troppo tempo: via, si salta sulla jeep (anche qui dentro c’è profumo di miele!) e su verso un campo. È il campo del farro spelta. Ci entriamo in mezzo passando dentro il solco di scolo, e ai lati le spighe ci avvolgono fin sopra la vita. Osservo le spighe, che variano da punto a punto. Alcune sono più alte, altre meno, alcune più avanti nel ciclo di maturazione, altre più indietro… «È perché si tratta di una popolazione eterogenea, non derivano da semi tutti uguali comprati, sono quelle che riproduco qui in campo, e quindi danno questa diversità». Poi mi indica una specie di collinetta di spighe che emerge rispetto alle altre: «Vedi quel punto là dove le spighe sono più verdi e alte? Ecco, in quel punto l’anno scorso avevamo messo le lenticchie a seccare per la trebbiatura, è venuto a piovere e non abbiamo potuto trebbiare, il mucchio è rimasto lì e… guarda l’effetto sulla fertilità del terreno!»

Passiamo accanto a un campo di erba medica, e ci racconta che l’erba medica la fa stare almeno tre anni, in modo che riesca a reintegrare l’azoto che consumano i cereali. «Il primo raccolto di cereali dopo l’erba medica è il migliore, poi le rese vanno a calare e devi ripiantare le leguminose. Se vuoi lavorare in biologico, è dura, ma è così. Ho provato a concimare con il letame. Ma devi spargerne nel campo a tonnellate, mica scherzi. E sono costi che un piccolo produttore non riesce a sostenere. Per questo ho scelto la via della rotazione con le leguminose». Io intanto incespico cercando di seguirlo mentre scrivo i miei appunti e scatto foto. Si risale sulla jeep, e via più in alto sulla collina, si va verso i legumi. Quando scendiamo, la collina che abbiamo davanti lascia senza fiato. Sotto il cielo azzurro violento, le mille gradazioni di verde e le diverse fioriture dei legumi fanno un effetto che mette soggezione. Eccoci in mezzo alle cicerchie, legume antichissimo e poco utilizzato dalla cucina frettolosa di oggi. Mirko accarezza le piantine con lo sguardo. «I legumi sono fondamentali. Ed è importante sceglierne vari tipi, perché hanno fioriture scalari, così le api hanno sempre dove bottinare» Infatti, la collina ronza all’unisono. Milioni di api volano di fiore in fiore, creando una base sonora costante, una vibrazione bassa e continua. Mirko le guarda e non nasconde un sorriso, col sole sono tranquille e fanno il loro lavoro in pace. Chissà il fervore intorno agli alveari, ma purtroppo non abbiamo le tute e non possiamo andarci.

Come un anfiteatro verde, la collina è divisa in settori. Dalle cicerchie passiamo alle lenticchie, di una varietà molto piccola. Mirko passa e ogni tanto sradica un’erba infestante. «Alcuni tipi si possono lasciare senza problemi, altri invece fanno semi della stessa dimensione delle lenticchie e con la trebbiatura finirebbero nel prodotto; per questo ogni tanto devo passare a sradicare quelle piante che darebbero problemi». Poi arriviamo alla parte dei ceci; il loro verde azzurrino ha riflessi brillanti, come se trattenesse la rugiada.
Rientriamo verso la cascina, non vogliamo rubargli altro tempo. Ma Mirko si siede un po’, e tira le somme della sua esperienza di agricoltore. «Guarda, fare l’agricoltore è sempre più difficile. Qui in collina ancora di più, perché lo vedi, è un tipo di conduzione del tutto diversa. E poi ogni cosa costa. Come farei a permettermi un trattore di quelli nuovi e supertecnologici, che costano cifre enormi? Secondo te le banche lo danno un prestito a un contadino che si vuol mettere a coltivare il grano?» Ha un po’ l’amaro in bocca, guarda verso un punto indefinito mentre mi dice: «Guarda, io come agricoltore non mi sento tutelato. Chi mi tutela? Chi aiuta questa nostra agricoltura? Io ho la fortuna di avere i miei genitori che possono darmi una mano nei campi, ma se dovessi prendere un operaio non riuscirei a pagarlo. E che speranza possono avere i giovani che vengono qui da me a imparare ad allevare le api, perché hanno la passione ma partono sapendo che non possono sostenersi economicamente con il loro lavoro?». «Vedi, piano piano si sta cominciando a parlare un po’ di più di che cosa mangiamo, a stare più attenti alla qualità delle materie prime, ma è un processo lento, e la congiuntura economica non aiuta».  «Tra l’altro le api, se vuoi allevarle in biologico seriamente, devi farti un mazzo enorme. Per tenere in vita gli apiari devi sempre fare i salti mortali, e oltre a questo ci vuole anche fortuna». Glie la auguriamo, tutta la fortuna del mondo, a Mirko, a Cristina, al ragazzo che è con loro per imparare il mestiere, e li salutiamo.

Mirko lo rivedremo il giorno dopo, in piazza a Mondaino, col suo bimbo per la mano la domenica mattina. In bocca al lupo anche al piccolo Diego, appassionato di trattori e di macchinine; speriamo che le colline di Romagna, quando sarà grande, siano belle come adesso, ma che possano dare più sicurezza a chi le lavora con amore.

L’Oro del Daino, di Mirko Delbianco e Cristina Vanni

Sede Operativa: Via Montespino 2808, Mondaino (RN)
Punto Vendita: Via Roma 60, Mondaino (RN)
Tel/fax 0541.982126
www.lorodeldaino.it

info@lorodeldaino.it

Paolo Rossi

Paolo Rossi (p.rossi@acquabuona.it), versiliese, laureato in lettere, lavora a Milano nel campo editoriale. Nel vino e nel cibo ricerca il lato emozionale, libertario, creativo. Insegue costantemente la bottiglia perfetta, ben contento che la sua ricerca non sarà mai appagata.

3 COMMENTS

  1. Come al solito riesci a raccontare le cose che sembra di viverle. Bel racconto affascinante e interessante.

    Ci hai fatto conoscere persone che, malgrado i tempi, vogliono e riescono a vivere in modo sano e tradizionale.

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