“Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola”, di Massimo Montanari

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Il Medioevo, così lontano eppure così vicino. È considerato il periodo dell’oscurità che ha separato i fasti della civiltà romana dalla Rinascenza, eppure esercita sempre un grande fascino, che si riflette anche in improbabili ricostruzioni che hanno luogo in feste e sagre ed altrettanto improbabili riproposizioni di ricette dell’epoca. Ma d’altra parte, Proprio sul versante gastronomico, la prossimità del Medioevo la si deve presumere, perlomeno, dalla frequenza e dal successo dei volumi sfornati da Massimo Montanari, ordinario appunto di storia Medievale all’Università di Bologna, che ha avuto il merito di dissodare un campo pressoché incolto trasformandolo in orto fecondo. Del resto, è proprio in questo periodo storico che si formalizza l’origine della gastronomia italiana, grazie alla apparizione di molte decine di ricettari nei codici manoscritti, che culminano nel Libro de Arte Coquinaria di Maestro Martino de Rossi, e del De Honesta voluptate e valetudine del suo amico Platina, esempi di chiarezza e sensibilità didattica degni, appunto, di essere considerati testi fondativi. In questo volume, Montanari riesce bene a far capire, grazie ad un mix equilibrato di stile accademico e savoir-faire divulgativo, cosa ci unisce e cosa ci separa dal Medioevo, e lo fa organizzando il discorso in capitoli (riproposizioni di testi già pubblicati) che per molti versi appaiono come le portate di un vero e proprio succulento menu.

Dal Medioevo ci separano principalmente due eventi: il primo è la scoperta dell’America, che in realtà più che stravolgere i canoni della gastronomia impose alla dieta europea nuove materie prime, spesso migliorative rispetto a quelle tradizionali: la patata sarà considerata migliore perché più produttiva di rapa e navone, il mais del miglio, il pomodoro sarà trasformato in salsa e diventerà protagonista in cucina. Il secondo, forse più profondo, fu la sostituzione di una concezione sintetica delle preparazioni, in cui si puntava a realizzare composizioni di sapori che superassero annullandole quelle dei singoli ingredienti, con una analitica secondo la quale le diverse componenti (per dire, il cavolo, il porro…) dovessero mantenere la loro individualità e percepibilità pur nell’armonia e complessità finale.

La civiltà che avevano lasciato i romani era fondata sostanzialmente su tre pilastri: il pane, il vino l’olio. Nel linguaggio di Omero, i mangiatori di pane (sitòfagoi) sono gli uomini, portatori di civiltà perché il pane non esiste in natura, e la sua produzione presuppone conoscenze complesse; gli altri, sono i barbari. La caduta dell’impero romano porta però molti sconvolgimenti. Il Mediterraneo, da mare nostrum diventa mare di confine, con un sud arabo il cui pane è considerato in modo sprezzante (“focacce mal cotte”). Nel nord d’Europa prende il sopravvento la tradizione pastorale su quella agricola, e la carne diventa protagonista a tavola. L’allevamento del maiale ha una caratteristica famigliare, mentre quello del bovino, data la diversa mole, contiene in sé, nel meccanismo di lavorazione e vendita, le premesse dell’economia di mercato.

Altro snodo fondamentale del passaggio dal Medioevo alla gastronomia moderna è l’abbandono, nelle preparazioni, delle basi acide a favore di quelle grasse. E proprio sui grassi il discorso si fa complesso, andando al di là della consueta e un po’ schematica distinzione fra un nord utilizzatore del burro e dello strutto, ed un sud dedito all’uso dell’olio. Un discorso valido alla radice, ma nel quale va innestata una forte problematica di origine religiosa, ossia il divieto nei lunghi periodi quaresimali di cibi (e i grassi) di derivazione animale, che costrinse popoli non abituati al gusto per loro acre ed aggressivo dell’olio di oliva a ricorrere ad olii neutri come quello di noci, peraltro bollato come disgustoso dai romani. In direzione opposta, la seduzione della dolcezza del gusto del burro trovò progressivamente ampio seguito anche nel sud del continente europeo.

Civiltà come triade di pane, vino, olio, si diceva. Ed il ruolo fondamentale assegnato proprio al vino dai romani viene “rilanciato” in modo decisivo dal cristianesimo: Sant’Agostino, del resto, si incarica di tradurre in modo naturale il miracolo delle Nozze di Cana come miracolo quotidiano della pioggia trasformata in vino grazie alla vite. Ruolo che si propaga con grande energia anche nel Medioevo anche se, a questo proposito, Montanari ritiene di dar voce ai robusti e numerosi studi che ridimensionano il ruolo della Chiesa e dei monaci che “furono soltanto una [corsivo dell’autore] delle forze che garantirono non la sopravvivenza, ma l’eccellente stato della vitivinicoltura nell’alto Medioevo”. Sia come sia, la cultura del vino conquista il nord cristiano e, con la arabizzazione ed il proibizionismo musulmano, diventa cultura pienamente europea.

In un crescendo di intensità, si arriva alla fine del volume con la consapevolezza che la tavola è luogo di comunicazione in quanto sede di gesti simbolici comuni compiuti in collettività; che la gastronomia è rappresentazione della realtà, in cui il giallo dello zafferano tanto usato può richiamare i fondi oro della coeva pittura; che mai come nel Medioevo si è considerato il sapore, ed il senso del gusto, come vero rivelatore dell’essenza; e che mai come nel Medioevo, con l’uso delle dita per mangiare o nella comunanza di posate e bicchieri fra commensali, il rapporto con il cibo aveva “un rapporto spontaneo ed ‘animalesco’” di cui oggi si può forse provare anche una leggera invidia.

Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola
296 pagine, 19 euro
Laterza Editore – 2012
anche in formato epub e kindle

Riccardo Farchioni

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