Amaretto Santacrocese: quel vezzo delle novizie di Santa Cristiana che va al Salone del Gusto

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L’amaretto santacrocese parte alla volta del Salone del Gusto e Terra Madre, uniti in un unico evento in nome delle piccole realtà-patrimonio del cibo. Dopo l’edizione 2010, un ristretto manipolo di artigiani amarettai torna per la seconda volta ad unirsi ai “piccoli” della Terra. Perché insieme a loro, grazie all’appoggio di Slow Food, hanno deciso di dare voce al paniere delle numerose eccellenze sconosciute, sparse ai quattro angoli del Pianeta.

Da principio furono le novizie, che salendo dalla Sicilia per abbracciare una vita di clausura, portavano in dote sacchetti di mandorle. Tante, saporite, dolci. Così le suore del convento di Santa Cristiana di Santa Croce sull’Arno, per Natale iniziarono a confezionarvi dolcetti in omaggio ai benefattori e ai personaggi in vista del borgo. Ben presto, vedendo quanto i biscottini erano apprezzati dai concittadini, anche i fornai presero l’abitudine ad imitarne il procedimento. Alla fine il trastullo offerto in dono dalle monache è diventato una tipicità santacrocese, cucita addosso al Natale, ma buona tutto l’anno. In seguito, quando la ricetta iniziò a circolare per bocca delle massaie, le donne impararono a cuocerlo nel forno a legna dei panifici, oppure a casa, mescolando il trito di mandorle, zucchero, uova e scorza di limone. Quindi, a partire dagli anni Trenta, quando per impulso del “dopolavoro fascista” si diffuse l’usanza dei doni a operai e dipendenti in occasione delle feste comandate, i proprietari delle concerie lo utilizzarono per distinguersi. Così, infiocchettati come si fa per il dì di festa, gli amaretti oltrepassarono le mura cittadine, riversandosi nel resto d’Italia dove vivevano clienti e tornavano al paesello gli operai.

Ci troviamo nel Valdarno inferiore, in provincia di Pisa. Qui l’economia si fonda sulla lavorazione del cuoio e della pelle. Settore che ha vissuto un grande boom, uno stop e adesso torna a disegnare un nuovo futuro. Da venti anni a inizio dicembre l’antica usanza di cui si hanno tracce testimoniate dal XIX secolo – ma il convento è del 1286 e già da allora le rampolle di nobili famiglie siciliane salivano per abbracciare la fede in Cristo – si rinnova in una festa dove gli amarettai mettono in vendita i loro gioielli. Quest’anno cade domenica 8 dicembre. Oggi sono rimasti in pochi, neppure una decina, per un totale di circa 4 quintali di biscottini sfornati ogni anno, ma insieme lottano per mantenere viva la tradizione. In occasione della festa dell’8 dicembre si sfidano in piazza in nome dell’Amaretto d’Oro che, un po’ come la Coppa dei Campioni, esporranno tutto l’anno in negozio. Verrà rimesso in palio l’edizione successiva, come è d’uso in Toscana per gni gara degna di rispetto: a Siena con la corsa dei cavalli, a Querceta con quella dei “micci”. Siamo nella terra di Dante e Boccaccio, avvezzi a questo tipo di gioco. Come l’oggetto che rappresenta, anche il trofeo è unico, uscito dalle mani di un artigiano locale, l’orafo Andrea Nesti della gioielleria Baroni. L’anno scorso se lo aggiudicò il panificio Fornaretto, vedremo quest’anno chi sarà il più bravo.

Oggi, giovedì 25 ottobre, prende il via la nona edizione del Salone del Gusto, grande evento biennale organizzato da Slow Food al Lingotto di Torino, là dove un tempo nascevano le auto Fiat. Andrà avanti fino a domenica, con occasioni d’incontro da non perdere. Fra le 400 comunità del cibo che si sono date appuntamento a Torino da ogni angolo del Pianeta, c’è anche il piccolo manipolo di appena sei produttori rimasti a portare avanti la tradizione dell’amaretto. Per la seconda volta sono stati invitati a partecipare all’evento che Slow Food dedica al cibo delle minoranze, presentando il loro beniamino ad una cena che si terrà sabato sera. “Siamo pochi, le forze non bastano per tenere aperto uno stand in occasione dell’intera manifestazione – dice a nome dei colleghi il pasticcere de La Vacchetta, Paolo Seghetti – ma al Salone ci saremo. Per far conoscere al Mondo la storia partita da lontano di questo trastullo “da meditazione”. La morte sua è in abbinamento ad un bicchierino buono di vinsanto, ma è perfetto anche a merenda per i ragazzi. Fatto di materie umili, pochi ingredienti, assemblati dalla mano esperta di chi ha imparato a lavorarli, è l’espressione sincera di gente abituata a volere riconoscere il gusto di ciò che porta alla bocca”.

Irene Arquint

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