

Forse sta nel lato più insondabile il fascino indiscreto dei vini de Il Marroneto. Sta nel dico-non dico, nel chiaroscuro dei profumi o nel bagliore rassicurante di umori solo sussurrati. Sta nei sottintesi e nelle trame sospese. E ancor di più questa speciale attitudine potrete metterla a fuoco se quei vini avrete il piacere di traguardarli in verticale. Come è capitato a me, giustappunto un mesetto fa. Un viaggio a ritroso, fino agli esordi, a ripercorrere una esperienza di vita e di vigna che vede a protagonisti un vigneron intransigente e un terroir che non scherza.
Il primo si chiama Alessandro Mori, che sotto la scorza di una personalità forte e ciarliera conserva il dono della chiarezza e dell’assenza di peli sulla lingua. E’ determinato, sa il fatto suo, non ti nasconde la propensione “critica e dialettica” così come l’autenticità di un amore verso la terra di Montalcino ed il sangiovese che c’è lì. Un sangiovese che peraltro ha da essere interpretato all’antica, nel segno della classicità, che qui significa macerazioni lente e botti grandi. Il secondo, il terroir intendo, contempla vigneti fra i più alti della denominazione (400 metri slm), situati proprio a ridosso del paese di Montalcino, sopra Le Chiuse e il Canalicchio per intenderci, con esposizioni che da est arrivano persino ad intercettare il nord, concretizzando un versante fresco ma assai luminoso. Il panorama che godi da lì sulla vastità dell’Orcia è di quelli contundenti. Ventilazione costante e suoli di matrice sabbiosa, ricchi di minerali, garantiscono l’imprinting ai vini, ricavati con filologica attenzione da pochi ettari di vigna. Figli di una enologia attenta e dei lieviti autoctoni, fanno tesoro di due o tre doti inalienabili per il Marroneto: acidità sostenuta, rarefazione aromatica, fraseggio sottile.
Ecco quindi dei Brunello stilizzati, eleganti, di sobria nobiltà. In alcune edizioni -dipende dall’annata in gioco- chiedono tempo per illimpidirsi e mostrare le proprie insegne. Perché il territorio del Marroneto, che fa maturare le uve più tardi rispetto al main stream, partorisce vini lenti, questo è. Lì, dove le trame ammettono dissolvenze e i vini ti appaiono più freschi che tannici, o almeno così è sempre stato finché non è apparso sulla scena lui, Madonna delle Grazie, il celebre cru aziendale: stesso terroir, stessa qualità delle uve di base, solo un modo diverso di elaborazione cantiniera (per cui non si potrebbe manco parlare di un vero e proprio cru, ma di una diversità nella somiglianza).
Pur non disperdendo i fondamentali della ortodossia produttiva dei luoghi, in questo caso ci si adopra per non movimentare mosto e vino, con il risultato di propiziare una estrazione più profonda e un frutto più dichiarato rispetto alle circuizioni floreal speziate e alla flessuosità tipiche della versione “classica”. Un vino di maggior peso e risonanza tannica dunque, che richiede sempre ascolto attento e un adeguato periodo di maturazione in bottiglia per svelare appieno il suo potenziale.
Questo viaggio sensoriale sintetizza tre decenni del Marroneto: dalla prima annata (1980) all’ultima in commercio, targata 2009. Indipendentemente dai picchi, a colpire sono le “sospensioni”, i silenzi parlanti oltre le note dello spartito organolettico, a mio parere il vero leit motiv di una fisionomia fattasi ormai riconoscibile. Così come l’acidità ficcante, che rende servigio non soltanto a colori brillanti e che tali restano a distanza di trent’anni, ma anche a un sorso dalla trama affusolata e mai sfrangiata dall’alcol, ciò che ti porta spesso e volentieri a salivare, regalandoti quelle good vibration che sole attengono a certi Sangiovese d’altura.
Brunello di Montalcino Riserva 1980
Il rubino è incrollabile e si porta appresso pochissime ammaccature. A ben vedere non si danna poi tanto per mantenere tono e vivacità, ciò che non assoceresti affatto ad un rosso di 34 anni! L’evoluzione è controllata, annusi cera e tabacco in un ventaglio garbato e a suo modo insondabile. Qualcosa che odora di buono ma che non afferri nella sua interezza, perché è in parte sottesa, riposta. Lo assaggi e fin da subito ti colpirà per come fila via dritto e impettito: la vena acida ben presente rende profilato il tratto gustativo. Con l’aria se ne escono gli idrocarburi, i fiori secchi e gli agrumi: il quadro acquista punti in suggestione e seduzione. Il finale è lungo, affusolato e freschissimo: stai salivando e ne richiedi ancora.
Brunello di Montalcino Riserva 1982
Solenne e fumé, sia pur aromaticamente non troppo dettagliato, dietro i sentori di cera fa capolino una idea di frutto non ancora sopita, leggiadra e sussurrata. In bocca vibra di acidità e ricorda maledettamente un Pinot Nero, magari un grande Volnay, per via di quell’elegante sfumatura di cuoio e rabarbaro e di quel delicato soffio tannico, impalpabile e sensuale. Saporito, elegiaco e in odor d’agrume, tatto e gusto farai fatica a dimenticarli. Meglio non sforzarsi comunque: ricordarli ti sarà utile!
Brunello di Montalcino Riserva 1988
Aperto à la volée per un raptus di entusiasmo e condivisione, rivela un naso che ovviamente ha bisogno di respirare, ma che nel frattempo mette sul piatto dei ragionamenti terra, tabacco e agrumi. Grinta, calore e tipicità sono le prime avvisaglie al gusto; alcune screziature nel tessuto tattile lo rendono più rugoso. Andrebbe atteso, ma il tempo morde ai fianchi i viaggiatori.
Brunello di Montalcino 1991
Elegante, ampio, compassato: buon sapore di fondo con qualche inflessione vegetale, foglie secche e acidità. Chiusura ancora tonica, dal tannino un po’ scoperto e affilato. Ricordando quel ‘91 pressappoco disastroso per la Toscana del vino, ecco qua un conseguimento cui il tempo non è stato ancora in grado di demolirne dignità e compostezza.
Brunello di Montalcino 1997
Ancora questa “insondabile sospensione aromatica” che dice e non dice, tratteggiata in un quadro ampio e nobilmente introspettivo. Bocca felpata, bilanciata ed elegante, chiaroscurale e bella. Soprattutto fresca! E un ’97 fresco e vitale è roba da far suonare le campane a festa (pure se è lunedì).
Brunello di Montalcino 2004
Qui è la gioventù a regalargli un più leggibile frutto di ciliegia, una ciliegia quasi “chiantigiana” nella sua espressività, perché corroborata dalla freschezza, ciò che gli fa assumere accenti provvidenzialmente balsamici. E così quella “insondabile sospensione aromatica” apre a pertugi tutti nuovi. Nel frattempo, fra note fumé e tannini di buona famiglia, il legno sta ancora in fase digestiva, a portar via dettagli e allunghi a quel finale. Mannaggia a lui!
Brunello di Montalcino Madonna delle Grazie 2008
Presenza (e profondità) di frutto più marcata rispetto agli standard della maison. Ottima definizione, corpo presente, stazza certa ma disegno sempre portato per le sfumature, senza che assuma toni imperativi o presenzialisti. Bel tannino non c’è che dire, ben fuso soprattutto, anche se di solida impalcatura. Rispetto al 2009 appare maggiormente equilibrato, sa il fatto suo e punta dritto al futuro.
Brunello di Montalcino Madonna delle Grazie 2009
Naso ampio, anche se non ben scandito. Tannicità compatta che si fa sentire, insieme a una leggera appendice di lacca nella componente fruttata, portata in dote dall’alcol. Bella freschezza acida a contrastare però, e a rendere il finale nervoso, reattivo, scalpitante, solo da illimpidirsi. Chiede tempo, questo ci chiede: concediamoglielo.
Assaggi effettuati in cantina nel mese di maggio 2014
Spendo volentieri due parole per quest’azienda di Montalcino che sta realizzando vini da campionato del mondo.
Il Madonna delle Grazie 2008 è un vino che andrebbe insegnato nelle scuole di enologia e ai peritini agrari.
Un vino realizzato magistralmente fra vigna e cantina e con bottiglie come queste il circo della comunicazione ha poca stoffa da tessere. E’ un grande vino. Non c’è altro da aggiungere.