Un Pigato, datemi un Pigato. Prima Parte

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vignaPigatoLo scorrazzare incessante nell’universo-mondo vino ti porta a concludere, a volte, che il turbinio degli assaggi seriali – quale costipata sintesi di migliaia di incontri diversi-  costituisca un vortice emozionale che mal si addice all’approfondimento. E’ come stare perennemente in viaggio senza il piacere di una sosta,  con il paesaggio che ti sfreccia ai lati come mille istantanee sovrapposte e con te che non sei in grado di arrestare la macchina e aspetti solo che la benzina finisca. In quei frangenti ipnotici, coinvolgenti e stranianti ho tentato di riprendermi il tempo, quello dovuto per una riflessione meno fugace. Ho così annotato – e seguito con attenzione – una tipologia che nelle ultime stagioni sta vivendo una sorta di seconda vita, una “vita vitale” direi, prodiga di buoni propositi e di etichette stimolanti, traboccanti finezza, garbo e singolarità. Una tipologia che non puoi ignorare, non più. Perché si pone oggi come avanguardia qualitativa di una enologia tutto sommato ancora poco conosciuta, e poco diffusa al di fuori dei propri confini regionali, quale quella ligure. Perlomeno, non per quanto meriterebbe. Sto parlando del Pigato, vino-vitigno bandiera del Ponente ligure, ovvero di quella fascia di territorio (la Riviera Ligure di Ponente, appunto) che, lasciandosi Genova alle spalle, si spinge fino al limite del confine francese coinvolgendo sostanzialmente le province di Savona e Imperia, storiche culle di questa autoctonia. Ebbene sì, dalla piccola Liguria del vino ci arriva un segnale forte e chiaro, figlio di una viticoltura difficile e dispendiosa e frutto di attività imprenditoriali quasi sempre piccole, innervate da viticoltori a tutto tondo. Un segnale che ci parla di orgoglio di appartenenza e radicamento territoriale, a ben vedere le uniche armi su cui puntare per conquistarsi un posto al sole nel mare magnum della produzione enoica nazionale. Gli unici appigli attorno ai quali costruire il senso di un percorso.

PigatoPerché il traguardo di una qualità diffusa oggi non è più una chimera ma un dato di fatto, che coinvolge un buon numero di produttori e si estrinseca in un buon numero di etichette raccomandabili, da ricercare, senza farsi prendere dallo sconforto di fronte alle apparenti difficoltà di reperimento, vista la diffusione non proprio capillare (eufemismo) di questi vini. D’altronde – è storia- gran parte del fascino perduto dei vini liguri era dovuto all’abbaglio del miracolo balneare, di cui da sempre ci si è nutriti in regione, in qualità di facile sbocco, privilegiato e spesso esclusivo, delle produzioni agricole. Uno sbocco tanto comodo che se da un lato non ha reso necessarie particolari strategie commerciali  per approdare in altre regioni e su altri mercati ( in quanto che la produzione veniva pressoché assorbita all’interno), dall’altro ha comportato persino un progressivo svilimento nel carattere dei vini, che si facevano più incerti, anemici e diluiti. Non so poi cosa sia esattamente successo, ma qualcosa è successo. Forse, che non era più possibile riposare sugli allori. Ecco quindi che non soltanto dalle cantine storiche, quelle che hanno contribuito a reggere le sorti dell’enologia regionale anche in tempi in cui la qualità non era un concetto affermato e la gente scappava dalle campagne, ma anche dalle giovani “coscienze” che hanno (ri)progettato i loro percorsi esistenziali in compagnia della terra, vestendo di consapevolezze nuove il gesto agricolo, si è avuto uno scarto di mentalità rispetto al passato. E i vini, assieme alla precisione esecutiva, si sono ripresi una bella fetta di credibilità: assieme alla forma, la sostanza.

Nel bel mezzo di questo recupero vocazionale, che ha richiesto e ancor richiede il suo tempo, oggi possiamo ben dire di respirare un’altra aria. Quanto mai ispirati sul fronte del contrappunto gustativo, i Pigato “contemporanei” sono vini longilinei, sfumati, freschi, elegantemente floreali, dalle pervasive coloriture minerali. Aggraziati, “diritti”, di nobile portamento e calmierata alcolicità, non urlano la loro presenza ma richiedono sempre un ascolto attento, riservandosi pure il privilegio di uscire alla distanza, rifuggendo ben volentieri dal modello del bianco mordi e fuggi, in grado di brillare nello spazio di una stagione per poi affievolire in fretta la sua voce.

A monte di queste “direttive” organolettiche si muovono oggi diverse sensibilità interpretative, ossia diversi “manici”, che modellano i vini secondo accenti diversi contribuendo non poco, assieme alle giaciture e ai siti di provenienza, a caratterizzarne la fisionomia. A tutto questo aggiungiamoci pure la felice circostanza di aver intercettato vendemmie eccellenti, come la 2011 per esempio, o come la “tardiva” 2013, che ha portato in dote reattività e freschezza. Ma credo che stia nella maggiore consapevolezza dei produttori, o meglio nella capacità di affrontare con maggiori giudizio e misura le diverse vendemmie in gioco, la ragione primaria che va alimentando la stagione attuale del Pigato e la sua nuova “vita vitale”.

E fa piacere cogliere una apparente contraddizione in questo movimento diffuso verso la qualità delle produzioni “in bianco” ponentine: perché sta avvenendo in un momento storico e in una congiuntura economico-sociale assolutamente disagevoli per il nostro paese, circostanze queste ultime che potrebbero ben condurre a comprensibili conseguenze negative sulla qualità dei prodotti offerti, dal momento in cui investire, progettare o gestire una impresa agricola potrebbe costituire una “impresa” a tutti gli effetti. Nulla di tutto questo traspare, se stiamo ai bicchieri di Pigato. Forse le ragioni stanno nello “scudo” alla crisi offerto da aziende prevalentemente a conduzione familiare, di piccole dimensioni, che sono poi il tessuto connettivo della Liguria del vino, che nel passato -non di rado- costituivano un hobby da dopo-lavoro per improvvisati ed appassionatissimi viticoltori. Ma è anche vero che una cura e una capacità di dettaglio così non la inventi per caso. E non potrebbero derivare – con tale continuità poi – da una attività che non fosse seguita con assiduità e competenza.

E così, mentre l’apparente contraddizione resiste, nel felicitarci per gli esiti ci permettiamo di offrire qualche suggerimento e fare qualche nome. Non per imporre graduatorie di merito, no, casomai per stimolare la curiosità verso un viaggio nuovo o una ricerca fuori programma, ai quali magari non avevate nemmeno pensato perché apparentemente lontani dalle vostre priorità.  Alla prossima puntata dunque, per parlar di estri, stili ed etichette: hai visto mai che non si debbano rivedere tabelle di marcia e priorità emozionali?

L’immagine della vigna di Pigato è tratta dal sito dunemu.it; quella dell’uva pigato da aisliguria.it

FERNANDO PARDINI

3 COMMENTS

  1. Vedo che ti sei spinto fin alle mie terre di origine! Lavagna sui tetti e sulle scale di casa, l’odore umido e penetrante di mare e scoglio tra i vicoli…di tutto ho nostalgia ma non del vino!!! Aspetto con ansia la seconda puntata Eliana’

  2. Non sapevo Eliana di queste tue origini, Lo sai che per me resti maceratese: ne conservo tracce millanta (così ci direbbe il Veronelli) nei vini tuoi conservati in cantina e nei gentili scambi di parole……
    Però confido che una scintilla di curiosità possa muoverti ancora da quelle parti, per apprezzare i vini della nuova era.
    ciao
    fernando

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