

Quando si percorre una strada non cambiano solo le cose attorno, ma anche i rumori. Se lo spazio che vedi è angusto, quelli saranno probabilmente noiosi, secchi, claustrofobici. Al contrario, se lo spazio si dilata, essi calano di intensità fino a volte a sparire, poi lentamente ritornano a commentare un campo, un albero o un tramonto. Spesso ci dimentichiamo che lungo un tragitto esistono dei suoni. Quando facciamo percorsi nuovi tutto lo spazio mentale è occupato dalla vista. Esiste invece una musica che segue la linea bianca tratteggiata che interrompe la monotonia dell’asfalto. Sono i suoni delle voci che abitano gli spazi, e i piccoli paesi, e le borgate, e i campi. Le cose che vediamo hanno un suono? O siamo forse troppo pragmatici da negarlo a prescindere? Un albero ha un suono, anche se le foglie non si muovono. Anche una collina ha un suono. Un colore ha un suono. Perfino il buio ha un suono. Potremmo giocare a riconoscere i suoni di quello che vediamo. Oppure potrete bollarmi come uno squinternato e cambiare articolo. La seconda che ho detto, eh?
Nel viaggio di oggi ho inteso farmi guidare dalle “note dell’ambiente”, note che mi hanno accompagnato dalla Romagna fino al Mugello. Due ore e mezza di strada rigorosamente Sp (strada provinciale). In Italia tutto è piccolo e cambia in fretta, chilometro dopo chilometro. La musica è sempre presente, i suoni delle voci si rincorrono per sparire improvvisamente e accarezzare di nuovo il tuo orecchio appena scorgerai un tetto o una fontana. Non prendo su nessuna valigia, solo i miei pensieri, quelli mi accompagnano sempre. Non so se capita anche a voi, potremmo partire anche con una valigia vuota, tanto la mente è già stipata di tutto il vecchio e di tutto il nuovo che ancora non esiste. Parto dalla Romagna in direzione Nord sulla nobile via Emilia, quella cantata dal Liga, tanto per intenderci. Arrivato nella città natale di Pellegrino Artusi giro a sinistra e prendo la strada che mi porterà al Valico dei Tre Faggi, appena sotto a quello del Muraglione. Qui gli accenti cambiano e annunciano l’arrivo di un nuovo dialetto. Cambiano i gesti e cambiano le cose. E’ una bella giornata e sono in compagnia. Mi perdo nella voce di chi mi sta accanto e nei colori che mi circondano. Per sentirne il suono. Vorrei sempre potermi approcciare così per ogni viaggio, anche se breve. Quindi lo faccio: apro i finestrini, riduco la velocità, mi concentro su quello che c’è nell’aria. Oltrepasso la linea che separa la foresta romagnola da quella del Mugello e ne discendo la strada. Nuovi colori, nuove architetture e nuova musica. Il dialetto romagnolo, esuberante e ruffiano, lascia spazio a quello toscano, più sanguigno e verace. Mi piace il dialetto toscano, mi ci trovo bene, mi calza, non lo so parlare ma lo so vivere, e questo mi basta. Sento strana aria di casa, che non ho mai sentito da altre parti, un’aria che mi rigenera e mi dà pace. San Godenzo, Dicomano… ah, ecco la freccia: Vicchio. Appuntamento alla stazione: “E’ che così son sicuro che ci si trova “.
Eccolo Paolo, Paolo Cerrini, lo riconosco dal cespuglio ricciuto e brizzolato dei suoi capelli, una chioma generosa, due occhi azzurri curiosi e saggi; non sorridono ma ti accolgono, accolgono chi abbia voglia di andarlo a trovare. Occhi teneri e decisi, occhi che non ti evitano e se non sei sincero ti imbarazzano. Una figura minuta e asciutta quasi scolpita nella sua essenza, vibrante e allo stesso tempo apparentemente fragile, un po’ inquieta e piena di energia. Lo seguo. Prendiamo una strada stretta dove non mancano buche di tutte le misure e di tutte le forme. Una strada che rimanda echi di carri e di muli, di scarpe consumate e di ghiaia mossa da piedi stanchi. Il tragitto si fa ancora più stretto e agreste, si scende, si attraversa una minuscola macchia boschiva e si risale sbucando improvvisamente in un piccolo cortile contadino protetto da una antica casa di sasso. “Buon giorno, ben arrivati “.
Una voce femminile e morbida, sorridendo, ci viene incontro. Sembra appartenere ad un’altra dimensione Manuela Villimburgo. E’ eterea, amabile, delicata. Il suono delle sue parole è cordiale e mi sento già a casa. E’ l’altra metà del progetto. “Questa è una cantina molto piccola ed ha una sostenibilità fatta per due”. Lei partecipa a tutto quello che succede. Essendo giornalista e collaboratrice del Sole24 ore cura principalmente la parte di comunicazione e il commerciale, ma sempre con quello spirito timido e riservato, oltreché professionale. Nel frattempo, lavori in corso tutt’intorno, come per ogni buona cantina che si rispetti. E’ un fai da te, Paolo ne è l’architetto e il manovale. Scorgo il vigneto allevato a Lyra o, come dice lui, a “biforca mugellana”. “Questa è una zona umida e così una elevata superficie fogliare mi permette di incrementare il grado alcolico, antociani e polifenoli “. La micro-cantina è una costruzione ricavata dalla vecchia stalla. “ Entriamo? ” mi dice Manuela, “andiamo ad assaggiare qualche cosa? “. E’ una giornata di sole tiepido. Due bei maremmani ci fanno da scorta verso casa. A loro il compito di proteggere le bottiglie.
Quattro i vini, e quattro i “suoni”.
Annita 2014 (chardonnay e pinot nero) – Suona aggraziato, ti accarezza, ti coccola e ti sussurra di sé. Sono armonie gentili. Il pinot nero, da buon signore, tiene per mano le note delicate dell’uva bianca.
Carabà 2014 (sauvignon 100%) – E’ una suite, perché ti racconta tanto. Un succedersi di movimenti andanti con brio. Melodie a volte scattanti e asciutte, altre volte avvolgenti e inaspettate.
Terosè 2014 (pinot nero 100%) – Un rosato, ma un rosato del Mugello. Cosa vuol dire? Note ricercate e “permalose”. Il clima lo richiede.
Ventisei 2012 (pinot nero 100%) – Raffinatezza, eleganza, fascino. Il tutto giocato su spazi di settima, armonie solo all’apparenza prevedibili ma che poi sanno scartare di lato, lasciando posto ad improvvisazioni originali. Che ne dite di Charlie Mingus?
Il mio entusiasmo ha già preso il sopravvento, cerco di domarlo e continuo ad ascoltarli. Sono innamorati e ancora tanto sognatori. Dall’ardore intatto di Paolo capisco che per lui la cosa più importante è la terra. Girando fra i filari la gratta e, sotto le erbe che lascia crescere spontanee – trifoglio, equiseto, tarassaco, mentuccia e così via-, mi mostra il suo colore: è scura. “Sono tutti i microrganismi che ripopolano lo spazio”. Mi fa notare i buchi fatti nel terreno dagli animaletti che ci vivono. “ Guarda, guarda che bella vita che c’è, madonna, la pare un’autostrada!”. Che dire, ti fa entrare in vibrazione come un diapason. E comprendere. Manuela sorride, stupendosi una volta di più da quanto succede attorno.
Sono stato bene. E quando questo accade non te ne vorresti mai andare. Sono uno dei tanti (o dei pochi?) che passa da quelle parti, e ne sono felice. Riprendo la strada di casa. Il piccolo passaggio a livello è chiuso e mi ricorda quello che Benigni e Troisi incontrarono prima di Frittole, in “Non ci resta che piangere”. Mi pare di sentire in lontananza il suono di una locomotiva in arrivo: e se mi portassero via con loro?
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