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Abbinamento cibo-cocktail: funziona davvero?

Avete mai provato un menù abbinato a cocktail e distillati? Parliamo di una tendenza sempre più affermata anche in Italia: locali a tema aprono nelle principali città e le carte dei cocktail sono ormai immancabili nei ristoranti più prestigiosi. Personalmente sono sempre stato un po’ scettico, perché ritengo che nessuna bevanda al mondo possa mai sostituire il vero “ministro della tavola”, cioè il vino. Tuttavia, esplorare le infinite potenzialità del gusto è doveroso e divertente e quindi quando l’amico Mauro Orfanelli, titolare di uno storico wine-bar in Abruzzo (La Conca D’Oro di Avezzano, AQ), mi ha invitato a moderare una serata dedicata a questo nuovo (per me) tema, mi sono prestato molto volentieri al gioco.

Facciamo un rapido excursus storico. Quella della miscelazione è una pratica secolare. Basti pensare agli antichi Romani, che avevano l’usanza di mescere il vino con miele, acqua, resine e spezie. A tutti gli effetti già allora si poteva parlare di cocktail, intendendosi con tale termine una bevanda miscelata con almeno due ingredienti. Nel corso dei secoli l’arte della miscelazione si affinò e i cocktail, oltre al valore edonistico, assunsero anche la funzione di tonici e digestivi, considerati alla stregua dei medicinali. Il vero boom si ebbe durante gli anni Venti e Trenta del Novecento, con il Proibizionismo americano, quando per camuffare la scarsa qualità dei distillati e per mancanza di ingredienti si iniziò a miscelare freneticamente. Da quel momento i cocktail non furono più gli stessi e col tempo, soprattutto grazie ai progressi nella tecnica di distillazione e al conseguente miglioramento della qualità della base alcolica, apparvero bevande sempre più creative, eleganti e versatili. Alcuni grandi classici acquisirono allora fama planetaria. Si arriva così ai giorni nostri, in cui il cocktail varca i cancelli del bancone da bar per incontrare le tavole dell’alta ristorazione: la miscelazione diventa un’arte e assume derive anche più “alchimistiche” (mi riferisco alla “mixologia”, disciplina nata a Londra negli anni Novanta, che vede come protagonisti i “molecular bar” e i “bartender” che si divertono a sperimentare con la chimica e la fisica, modificando struttura e consistenza di cibi e bevande e creando alimenti dalle forme insolite e cocktail dal gusto sorprendente e dall’aspetto magico – ndr).

cocktail martiniTorniamo alla questione dell’abbinamento. Nello schema classico della miscelazione è sempre presente una base alcolica (gin, vodka, whiskey, tequila, etc…), che può essere variata da uno o più elementi che svolgono funzioni di correttori, armonizzatori e coloranti. Al di là delle tecniche e delle regole più o meno codificate, a fare la differenza sono la fantasia e la sensibilità del barman, che oltre a conoscere molto bene le caratteristiche organolettiche degli ingredienti deve anche essere un po’ psicologo, creando l’alchimia perfetta tra il cocktail e la personalità del cliente che ha di fronte.

La domanda scontata nel momento in cui decidiamo di abbinare un superalcolico ad un piatto è: si abbina per contrasto o per armonia? Entrambe le strade sono percorribili, ma l’idea che mi sono fatto dopo qualche tentativo è che la prima sia quella che da più soddisfazione. In ogni caso. nel costruire l’abbinamento il punto di partenza non può che essere uno: l’alcol.

Sappiamo che l’alcol in ogni bevanda (compreso il vino) ha impatti sull’olfatto e sul gusto. Da una parte esso contribuisce alla formazione del corredo aromatico poiché, oltre ad avere un suo profumo specifico, trasporta verso l’alto anche le molecole delle altre sostanze volatili, consentendone quindi una migliore percezione. Un cocktail molto profumato e speziato andrà quindi bene con un cibo altrettanto ricco aromaticamente.

Dal punto di vista gustativo invece esso genera sensazioni di pseudo-calore, che se eccessive possono diventare bruciore, e di secchezza. Funziona allora molto bene l’accoppiata con sostanze di tendenza grassa ed untuosa, per due motivi: da un lato la notevole capacità sgrassante/asciugante dell’alcol sarà l’ideale per pulire il palato e “resettarlo” per il boccone successivo; dall’altro l’effetto coprente del grasso che riveste la cavità orale attenua la “bordata” alcolica rendendola quindi più tollerabile. Insomma, i due contrastano molto bene e si equilibrano a vicenda. E’ importante infine che il piatto abbia una certa consistenza, una certa texture, perché l’impatto gustativo di un cocktail (alcolico si intende) sarà sempre ben avvertibile, e quindi il piatto deve avere il giusto “peso” per reggerlo.

old fashioned cocktailAl di là di queste considerazioni ovvie, per godere a pieno di un menù cibo/cocktail il requisito fondamentale è la libertà di pensiero (regola che vale sempre). Scordatevi ogni classificazione (pre dinner, after dinner, long drink e giù di lì): avete un piatto e un cocktail e dovete decidere se insieme si trovano o meno. Sospendete poi il giudizio, perché sarete di fronte a sensazioni nuove dettate spesso da ingredienti insoliti. Sperimentate, giudicate in base al vostro gusto e alla fine decidete se ne vale la pena o meno.

Io nel frattempo vi racconto com’è andata la mia serata.

Martini Cocktail abbinato a una tempura di verdurine e a paccheri cotti al forno ripieni di ricotta e prosciutto cotto, avvolti nel guanciale, serviti su salsa di pomodoro.

Martini. Un classicone che ha fatto storia. Potente, elegante, intramontabile, come l’abito da sera scuro in un’occasione di gala.  Il cocktail è spartano, ma pur avendo due soli ingredienti – gin e vermut dry – ha un impatto gustativo ampio e deciso, che può assumere mille sfumature nelle sue infinite varianti. Si usa dire che il Martini è il banco di prova di ogni barman, quello che svela la bravura, la sensibilità e il tocco del professionista. Ma è anche lo specchio del carattere di chi lo ordina: i puristi lo amano secco, i duri con appena un filo di vermut (alla Hemingway), c’è poi chi lo vuole un po’ più dolce (magari nella variante “jamesbondiana” del Vesper) e chi lo adora nella versione “dirty”, con l’immancabile oliva e il liquido di salamoia.

A me è stato servito un classic dry. L’abbinamento a mio avviso ha funzionato più con la tempura che con il pacchero. Nel primo caso il cocktail, pur restando alla fine un po’ troppo protagonista, puliva molto bene la bocca e rendeva ogni boccone molto gradevole e sfizioso. Il pacchero invece restava sopraffatto dal suo gusto secco e deciso ed usciva sminuito dal confronto. Il piatto, molto ben riuscito, si apprezzava in definitiva meglio da solo. Voto all’abbinamento: 5 1/2.

Manhattan abbinato a spiedini di pollo croccanti al sesamo e paprika.

manhattan cocktailIl Manhattan è uno dei cocktail più famosi al mondo, un classico immortale, ottimo per tutte le occasioni,  che fa subito viaggiare la mente verso le avventurose nottate newyorkesi. Leggenda vuole che ad inventarlo sia stata nel 1874 la madre dello statista Winston Churcill, una gentile signora che si dilettava con liquori e distillati per stupire i propri ospiti con invenzioni sempre assai spiritose. Si prepara con whiskey, vermouth e qualche goccia di angostura. La versione originale prevede l’uso di rye whiskey (all’americana, con base prevalente di segale), anche se la versione più in voga, che mi è stata servita, è a base di Canadian whiskey (distillato da mais e orzo, un po’ più dolce e carammellato). Ci sono cocktail che chiamano la carne, e questo è uno di quelli: l’accoppiata con i bocconcini di pollo si è rivelata una bellissima sorpresa. In un gioco di equilibri e richiami piatto e bevanda si passavano la palla, con il sesamo e la paprika che davano alla carne il giusto sprint per reggere bene l’impatto dell’alcol. Voto all’abbinamento: 7 1/2.

Cosmopolitan e Old Fashioned abbinati a crumble di ricotta e visciole e panettone artigianale al cioccolato fondente

Anche qui siamo andati su due certezze. Il Cosmopolitan è il cocktail femminile per eccellenza (avete presente la fissa di Carrie, la protagonista della celebrata serie TV Sex & The City?). La sua particolarità è la presenza del succo di cranberry, il mirtillo rosso americano, che si unisce ad una base classica di vodka, cointreau e succo di limone. Come contraltare quale potrebbe essere il cocktail più maschile di tutti se non un whiskey “alla vecchia maniera” come quelli che beve Don Draper? (anche qui un paragone con una nota serie Tv, Mad Men…scusate ma sono fissato!). Una zolletta nel bicchiere, due gocce di angostura, un filo di soda per scioglierlo e poi si aggiunge il ghiaccio, si lascia scivolare il whisky, si mescola e si aromatizza strizzando la buccia di limone.

La tendenza dolce accentuata nel primo si sposava molto bene con il crumble, sgrassando la ricotta e gestendo alla grande il palleggio di sapori tra mirtillo rosso e visciola. Voto all’abbinamento: 7 ½. Il secondo se la giocava invece bene con il panettone al cioccolato, anche se per funzionare c’era bisogno di una versione “ingentilita” da una decisa presenza di soda. L’ho assaggiata (voto all’abbinamento: 6 ½ ) ma poi, per chiudere in bellezza, ho chiesto al barman di prepararmi un Old Fashioned fatto bene, alla Don Draper per intenderci…e mi sono sentito un po’ più figo anche io!

(Le foto della serata sono di Miriam Fossellini)

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