NEW YORK – La fiera degli “smanettoni”, così l’avremmo chiamata se fosse nata in Italia. Ma, come quasi tutto in questi ultimi tempi, l’idea l’hanno avuta oltreoceano, in quella Silicon Valley ormai più dedita al business smaterializzato della rete che al caro vecchio silicio.
Maker Faire, la fiera di quelli che fanno, che si inventano le cose più utili o le più inutili nel loro garage o nel loro backyard. Niente di nuovo penserete, quanti di noi hanno smanettato con pezzi di recupero, si sono bruciati le mani col saldatore, hanno abbozzato un telescopio o persino, più professionalmente, si sono costruiti i propri apparati come facevano i radioamatori? Certo il mondo è pieno di inventori ma poi, a un certo punto, l’elettronica di consumo ha invaso il mercato e farsi le cose da soli quasi aveva perso senso: si trova tutto, si compra tutto, e per pochi soldi.
Ma la fantasia non poteva rimanersene stretta tra la realtà virtuale di un telefonino e gli scaffali (ormai virtuali anch’essi) di un negozio di elettronica, ed è stato lo stesso sviluppo tecnologico a fornire gli strumenti per ripartire, per il salto di qualità. Da una parte la stampa 3D. L’incredibile possibilità di stamparsi in casa particolari meccanici precisi e complessi con una spesa ormai ridicola. Dall’altra un’idea luminosa, e questa sì, italiana! Un’elettronica alla portata di tutti, economica e facilmente configurabile e infinitamente espandibile, a fornire il “cervello” alle nostre creazioni. Non avete ancora capito? Arduino, la minuscola scheda elettronica nata a due passi dalle ceneri della Olivetti, in quella piccola Silicon Valley italiana che negli anni ’80 sfidava ancora i giganti di oltre oceano.
Ogni Maker sa cosa è Arduino e Arduino è la vera star delle fiere dei Maker, nonostante la concorrenza invada il mercato di cloni senza mancare di rendere onore al capostipite anche nei nomi: 86uino, Linduino, Freaduino e via dicendo in una lista infinita… un processo imitativo assolutamente atipico in un mercato di tecnologie proprietarie, dove i produttori di elettronica fanno di tutto per rendersi incompatibili, a partire dal differenziare il connettore di alimentazione (quanto diversi alimentatori di telefonini/telecamere ecc. nascondiamo nei nostri cassetti?). Un processo che invece è il vero fulcro di questa rivoluzione tecnologica dal basso, in cui è la voglia collaborativa a vincere, in cui sono crollate le barriere che prima esistevano dalle idee alla realizzazione fisica del prototipo. Gli inventori non dovranno più andare col loro quadernone pieno di disegni a pietire la considerazione di un investitore per vedere il loro sogno prendere forma, oggi lo fanno in casa, e magari ne finanziano lo sviluppo industriale sul web, con una operazione di crowd funding!
Prendete quindi questi ingredienti, mescolateli con la fantasia di migliaia (centinaia di migliaia) di appassionati inventori e con il tipico understatement statunitense, per cui se sei un inventore devi andare in giro in ciabatte e coi capelli spettinati, ed ecco la Maker Faire, partita pochi anni fa a San Mateo (baia di San Francisco) e ora replicata anche a New York, da dove vi scrivo, e nel resto del mondo (proprio nei giorni scorsi la Roma Maker Faire!). Una fiera dove anche le multinazionali presenti improvvisano stand degni di un mercatino di Porta Portese e dove verrete investiti dalla fumaraglia e dagli odori del peggior (e più caro) cibo da strada che abbiate mai mangiato!
Certo, perché le multinazionali non mancano, hanno già capito, ed ecco così spuntare le maggiori aziende produttrici di semiconduttori e, naturalmente, colossi come Google, che organizza un corso per imparare a saldare, con tanta gente in fila ma forse non tanta quanta all’attiguo corso per scassinatori (Free Lockpicking Workshop)!
E via dicendo, tra corse di automobiline fatte in casa (rigorosamente elettriche e velocissime), gare di droni, performance di ballerini con robot, strumenti musicali suonati da accrocchi meccanici degni del Dottor Baltazar, elegantissimi arabeschi tracciati sulla sabbia da piccole sfere mosse da magneti secondo complessi algoritmi matematici, ecc. ecc.
Difficile dare un’idea di quanto può bollire in una pentola come questa, difficile anche capirlo nei due giorni scarsi di visita. Lascio alla galleria fotografica qualche suggestione e alla vostra curiosità la scoperta di questo mondo, e vi saluto con un: “let’s the Make go” come mi saluta Tenaya Hurst, la dea Arduino della California, una tech-woman che non si può non notare tra la folla degli avventori.
Epilogo: dove andare a cena dopo una giornata come questa? Evito sempre con cura il cibo italiano all’estero, ma la nostalgia sembra tanta e il gruppo degli italiani punta deciso verso la Ribalta, ristorante italianissimo nel centro di Manhattan. E poi, non è forse vero, come mi sentii dire in Texas, che la pizza è stata inventata a New York?
Per fortuna niente legno e tovagliato a quadretti; il locale, moderno e ben frequentato da giovani, ci risparmia anche le onnipresenti televisioni che adornano ogni parete negli States. Ma non la musica ad alto volume. Per il resto sì, ci sentiamo proprio a casa e il menù potrebbe tranquillamente essere quello di un ristorante di Mergellina. Così come le vociate, spesso in napoletano, che si passano tra camerieri e cucina.
Unica concessione all’american style è la possibilità di scegliere il “topping” per la pizza, ovvero gli ingredienti da aggiungere. Un pegno da pagare all’individualismo anglosassone e la chiara prova dell’inesistenza di una cultura gastronomica condivisa, così che le acciughe e il salame piccante possono coesistere con le cipolle e l’ananas!
Pizza volevamo e una margherita prendiamo (senza topping…), passando però da un poco di antipasti sicuramente italiani, visto che prosciutto e olive come queste qui non si trovano. Nell’attesa ci facciamo anche tentare da un Negroni Reinvented, un “It started in Neaples“, variazione a base di Botanist, infuso di peperoncino Casoni 1814, Amaro Sibilla e Pompelmo San Pellegrino. Piccante, profumato e dolce al tempo stesso. Forse più un Gin&Tonic apocrifo che un Negroni, ma molto piacevole.
Arriva la pizza, una Margherita STG (Specialità Tradizionale Garantita) come da menu, con fiordilatte importato (sospirando per il chilometro zero tradito). Bella e buona, col giusto cornicione e un pomodoro dolce e saporito. Curioso il basilico, quasi mentolato come in certe varietà liguri, ma questo certo non era importato (lo spero!).
Pilucchiamo anche dai piatti degli altri: polpette al sugo, spaghetti al pomodoro, cavatelli alle melanzane, tutto all’altezza!
No, la pizza non l’hanno inventata a NY! Ma se passate da queste parti e soffrite di nostalgia, un salto alla Ribalta ve lo consigliamo.
Ribalta Restaurant
New York City
48 E 12th St
New York, NY 10003, USA
+1 (212) 777-7781