Racconti di viaggio: Sudafrica, parte prima

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p1030614Dopo due anni eccomi di nuovo in Africa. Potrebbe trattarsi del classico “male”? Beh, proprio un malessere non direi, ma un certo “disturbo” sì. Dopo la Namibia torno nel continente nero per quei paesaggi unici e quella voglia di (pseudo) avventura che i safari sanno regalarti. Al sicuro sui fuoristrada attrezzati (“sicuro” è un eufemismo, visto che sono aperti), sotto lo sguardo vigile dei ranger e, soprattutto, rassicurati dal colpo in canna nella carabina, la tensione durante la continua ricerca di “prede” è palpabile. Le emozioni che si provano alla vista ravvicinata di quegli splendidi animali immersi nella natura selvaggia è difficilmente descrivibile, specialmente se li hai davanti a soli due o tre metri – a volte anche meno – e magari sono uno dei big five (leone, bufalo, rinoceronte, elefante, leopardo)!

Il percorso programmato e concordato con la famiglia ha toccato circa tre quarti dei confini sudafricani. Partendo dalla zona a nord-ovest di Johannesburg, dove abbiamo visitato il Kruger Park e il Blyde River Canyon, continuando in senso antiorario abbiamo proseguito per: Madikwe reserve (confine col Botswana, subito sotto la capitale Gaborone), Kgalagadi Transfrontier Park (deserto del Kalahari tra la Namibia e il Botswana), Cape Town, Stellenbosch, Hermanus, Knysna – Plettenberg Bay e Shamwari reserve (vicino Port Elizabeth). Un giro piuttosto lungo che ha necessitato di sei voli interni e di alcune discrete trasferte in auto: d’altronde il Sudafrica è grande più di quattro volte l’Italia!

mappa-tourMa il Sudafrica è molto di più, e un aspetto interessante è certamente quello enogastronomico. In generale la cucina sudafricana, specialmente da Cape Town in poi, mi è sembrata molto influenzata dallo storico commercio con il vicino continente asiatico, in particolar modo dalla cucina malese, riscontrabile nel largo uso di spezie e in una certa dolcezza delle pietanze. In questo trovo anche la giustificazione dello stile dei vini sudafricani, più orientati all’ampiezza e alla intensità di profumi fruttati e speziati che non alla ricerca di profondità e mineralità.

Apro una piccola parentesi per un dubbio amletico personale riguardante la mineralità/sapidità: terreno o non terreno? Non sono un enologo né un geologo, ma in un territorio tanto ricco di minerali perché raramente ho percepito una mineralità degna di nota nei vini? Sul sentore minerale si può obiettare che è, appunto, un “sentore” – come lo è quello della frutta – legato a ricordi della memoria e non presente fisicamente nel vino. Ma la sapidità, la salinità penso siano caratteristiche necessariamente legate al terreno, a meno che non accada qualcosa di magico in cantina. Anche il fattore età della vigna che potrebbe giustificare una maggior profondità delle radici, e quindi un trasporto maggiore di sali minerali agli acini, penso sia importante ma non decisivo. Infatti ho assaggiato vini provenienti da diverse zone e da vigne vecchie ma in pochi, pochissimi casi o trovato una sapidità rilevante, almeno per il mio palato! Potrebbe dipendere dall’irrigazione delle vigne, cosicché a parità di grappoli per pianta l’acqua rende gli acini più gonfi e quindi con meno estratti, ma di questa pratica non so quali o quante aziende ne facciano uso. Resta il fatto che in tutto il Sudafrica i vini con una sapidità interessante sono una mosca bianca, tanto per rimanere in tema animale.

20170810_125346Comunque, tolto un uso un po’ impegnativo di barrique e legno nuovo, specialmente nei vini di punta aziendali, trattasi di vini tecnicamente ben realizzati e di buon livello qualitativo. Personalmente, dopo i primi approcci, ho preferito pasteggiare con i vini base, affinati in acciaio o con lieve passaggio in legni usati, molto più facili da bere che non i vini importanti, molto impegnativi per una potenza gusto-olfattiva notevole. Chissà come saranno tra una decina d’anni, acidità e struttura permettendo.

Tornando al cibo, nei parchi e nelle riserve ovviamente il piatto forte è la carne, quasi sempre è possibile assaggiare un “game” – un animale selvatico – che spesso è una delle varie antilopi, ma può capitare anche il coccodrillo o il facocero. Tra le antilopi preferisco nell’ordine l’orice, l’eland e il kudu, delle quali consiglio la cottura al sangue e di specificare “salse a parte”. Il coccodrillo può ricordare il pollo, mentre il facocero un maiale leggermente più dolce. Esistono poi dei chioschi che vendono snack di carne secca, fatta a pezzettini o a strisce, dove è facile trovare anche l’impala e lo springbok. Questi stuzzichini non mi fanno impazzire ma vale la pena provarli.

Spostandoci lungo la costa sono rimasto abbastanza deluso dalla cucina di mare; raramente ho visto bistrattare in tal modo pesci e crostacei. Ok, i pesci dell’oceano non sono saporiti come i nostri, ma coprirli di salse e salsette dove alla fine senti di tutto tranne che il sapore del pesce mi pare un abominio. Peggio ancora per due prelibatezze come l’aragosta e l’abalone, che mi sono state servite stracotte e, come dicevo, ricoperte da salse o burro fuso. Questo nei migliori ristoranti di Cape Town ed Hermanus, altrimenti in località meno turistiche ci è capitato di sentirci consigliare come miglior ristorante di mare un locale appartenente ad una catena tipo fast food… per non drammatizzare troppo, è andata meglio con le cozze e le ostriche (locali di Knysna), anche se non sono ai livelli di quanto è presente sul nostro mercato, ostriche nazionali comprese.

Sul fronte dessert niente di particolare e, strano ma vero dopo quanto scritto sopra, non sono così dolci come ti aspetteresti. Il dolce più tipico che ho assaggiato è stato il Malva pudding (dal nome di una ragazza, non è fatto con la pianta omonima), una semplice torta morbida, con un po’ di marmellata di albicocche nell’impasto per renderla più umida, servita con salsa alla vaniglia. Se fatta come si deve è una vera prelibatezza, pur nella sua semplicità.

Discorso a parte per il caffè e i liquori: a Cape Town esistono tante caffetterie che tostano in proprio il caffè e quelle provate hanno superato ampiamente l’aspettativa, sebbene gli espressi fossero un po’ troppo lunghi. Come dopo-pasto ho apprezzato i brandy prodotti dalle aziende vinicole, ma è obbligatorio ricordare l’Amarula, una crema di soli 17 gradi che ricorda quella di whisky, prodotta con il frutto dell’albero marula.

Dopo questa premessa generale proverò a riassumere le tappe del viaggio nella speranza che possano essere d’aiuto a chi progetta una vacanza in questa bellissima terra. Lascerò da parte la tappa di Stellenbosch e le cantine visitate per un successivo approfondimento.

1) Kruger Park e Blyde River Canyon: se il primo è uno dei parchi più famosi al mondo, il secondo mi era del tutto sconosciuto ed invece ne sono rimasto molto colpito. Purtroppo siamo rimasti poco in questa zona, praticamente solo un giorno e mezzo effettivi , e se potessi rivedrei il programma di viaggio aggiungendo almeno un giorno. Arrivati nel pomeriggio, abbiamo potuto organizzare solo un safari notturno al Kruger. Dopo un’ora di trasferimento al gate del parco siamo saliti su una specie di camionetta guidata da un ranger e, armati con quattro potenti fari a mano, è partita la “caccia” agli animali per circa due ore. I safari notturni sono particolari, permettono di vedere animali che di giorno se ne stanno nascosti ma è anche più difficile scovarli, occorrono un’ottima vista e una buona dose di fortuna. Mi era capitato di farne, praticamente senza avvistamenti di rilievo, ma stavolta è andata decisamente meglio: oltre a vari animali facili da vedere come le antilopi, un paio di leonesse ci sono passate a fianco e una iena stava allattando il cucciolo a bordo strada! Non male come inizio della vacanza. Attenzione agli spostamenti di mattina presto e, come in questo caso, la sera a buio: come cala il sole la temperatura scende parecchio e viaggiare sulle jeep aperte dei safari può diventare una tortura, se non si è ben vestiti con tanto di cappello e guanti.

Il giorno dopo giro in macchina con varie soste lungo la panoramic route, per ammirare scenari mozzafiato, cascate, conformazioni rocciose particolari e la foresta pluviale. Con più tempo a disposizione, lungo il canyon sarebbero state possibili molte escursioni ed attività interessanti. Rientrati alla base abbiamo visitato l’Elephant Whispers, una sorta di riserva dove gli elefanti interagiscono con le persone. L’impressione può essere di andare ad uno zoo ma tali restrizioni sono talvolta necessarie: gli elefanti, per le enormi quantità che mangiano e bevono in un giorno, possono essere un problema se non sono regolamentati nel numero in certe aree. Dopo una introduzione su questi aspetti e sull’elefante in generale, si possono toccare le varie parti del pachiderma mentre ti spiegano le caratteristiche e le funzioni, infine una breve passeggiata sul dorso conclude un’esperienza davvero istruttiva ed emozionante.

Pernottamenti ad Hazyview, presso il Perry’s Bridge Hollow, lodge ben rifinito, confortevole e in posizione strategica. Peccato che rimanga a ridosso di una serie di attività commerciali (ristoranti, negozi,…) che ne pregiudicano il fascino africano, cosa che per altri può invece rappresentare un vantaggio. Comunque consigliato.

(Per visualizzare la meglio le gallerie sottostanti è necessario aprire le foto)

 

2)        Madikwe Reserve: trasferimento complicato, oltre tre ore di ritardo complessive per aver sbagliato strada, di cui due di sterrato in mezzo al nulla per tornare sulla “retta via”. Non oso pensare cosa sarebbe potuto accadere in caso di guasto. La riserva – aperta al pubblico nel 1991 a seguito di un’importante progetto di ripopolamento, oggi ottimo esempio di turismo eco-sostenibile – si estende in un’area di circa 70.000 ettari, recintata da 150 km di filo elettrificato a circa 30 km dal confine con la Botswana. Questa area una volta era destinata all’allevamento bovino e all’agricoltura. I puristi non apprezzano questo tipo di riserve, dove molti animali vengono inseriti da fuori, ma secondo me sono un’ottima soluzione se non si possono passare intere settimane nei parchi naturali dove gli spazi sono enormi e gli avvistamenti difficili. Inoltre nei parchi nazionali è proibito uscire con i mezzi dai percorsi segnati, mentre nelle riserve i ranger ti portano vicino agli animali (con le dovute attenzioni), cosa che fa una netta differenza a livello di brividi.

Gli animali comunque vivono nel solito ambiente e gli spazi sono in ogni caso grandi. Infatti, nello specifico, non siamo riusciti a vedere né ghepardi né licaoni, perché erano segnalati troppo distanti dal nostro lodge. Abbiamo passato tre giorni d’incanto facendo due safari al giorno intervallati da succulenti pasti e piacevoli riposi. Siamo riusciti a vedere tutti i big five, tranne il bufalo, e soprattutto meritano di essere ricordati: un leopardo (piuttosto raro da vedere) che ringhiava ad una iena che voleva rubargli la preda portata sull’albero, dei giovani rinoceronti bianchi che lottavano per gioco e dei leoni che stavano divorando una carcassa di gnu. Non da meno le varie antilopi, facoceri, uccelli, varani e anche un piccolo coccodrillo. Da segnalare poi gli aperitivi al tramonto: come è usanza, alla fine del safari pomeridiano, il ranger si ferma in un’area “sicura” e apparecchia un piccolo tavolino con snack di carne, frutta secca e frutta disidratata con la bevuta scelta alla partenza (di solito optavo per vino o gin tonic), così tra un sorso e uno stuzzichino si guarda il sole calare all’orizzonte immersi nei colori e nei profumi della savana: momenti indimenticabili!

Nella riserva esistono vari lodge, noi eravamo al Madikwe River Lodge: una serie di piccoli ma eleganti lodge (per lo standard africano) ed un corpo centrale dove poter mangiare (discretamente bene), parlare con i ranger (il nostro era davvero simpatico e bravo) ed intrattenersi nei momenti liberi. Molto consigliato.

Il viaggio continuerà nella prossima puntata, dopodiché seguiranno due approfondimenti sulla zona di Stellenbosch e sui vini assaggiati

galleria fotografica

 

 

Leonardo Mazzanti

Leonardo Mazzanti (mazzanti@acquabuona.it): viareggino…”di scoglio”, poiché cresciuto a Livorno. Da quando in giovane età gli fecero assaggiare vini qualitativamente interessanti si è fatto prendere da una insanabile/insaziabile voglia di esplorare quanto più possibile del “bevibile enologico”. Questa grande passione è ovviamente sfociata in un diploma di sommelier e nella guida per diversi anni di un Club Go Wine a Livorno. Riposti nel cassetto i sogni di sportivo professionista, continua nella attività agonistica per bilanciare le forti “pressioni” enogastronomiche.

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