I vini del mese e le libere parole. Novembre 2017

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il-bevitore_cezanneAncora diversi momenti condivisi, ancora diverse fotografie, ad onorare il ricordo dei vini bevuti, e non assaggiati. Mese ricco di soddisfazioni, novembre, da questo punto di vista. Ne ho estrapolati quattro, fra Francia e Italia, declinandoli secondo le libere parole.

Mi ripeto, non significa che sono il meglio che c’é, ma che sono stati semplicemente ciò che ho incontrato, la mia compagnia, il “secondo sangue della razza umana” di deamicisiana memoria, assieme agli amici, ai paesaggi, ai viaggi e agli umori. Di tutta questa parvenza di socialità sono stati il tramite, molto spesso il motore primo. Mi conforta immaginare che possano esserlo anche per chi ne leggerà.

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Calzo della Vignia 2016 – Castellari Isola del Giglio

bottiglia-calzo-scoglioMi riavvicino ai bianchi “macerati” dopo un lungo girovagare. E’ passato anche del tempo. Non avrei mai immaginato una luce così forte.  Ricordo bene come quei vini furono oggetto di subitanea infatuazione, e ricordo anche di essere stato fra i primi a recensirli, soprattutto in ambito “guidarolo” (penso alla corrente friulana di Oslavia, San Floriano del Collio, Carso, frequentata con assiduità fin dai primi anni Duemila assieme all’amico e collega Giampaolo Gravina).

Ho partecipato alla ricognizione di quei vini scaldandomi e raffreddandomi con ciclica frequenza, assaggiando “macerati” provenienti da nord a sud della penisola e imparando di potenzialità, barlumi e approdi. E a volte restandone deluso, soprattutto da quando ho scoperto molti di loro soggiacere al “metodo” di elaborazione, senza il conforto della compiutezza. Un approdo a metà quindi, dal momento in cui arrivava a contemplare l’incontemplabile, ossia l’omologazione.

Il piccolo grande Calzo della Vignia 2016, ansonica in purezza dall’isola del Giglio, terza vendemmia di sempre per i Castellari, è riuscito nel miracolo. Perché ci racconta dei suoi luoghi come mai avrei pensato, lì dove veracità ed eleganza si fondono per concretizzare un sorso dinamico, dritto ed equilibrato, da cui emerge a piena voce la fibra, la forza interiore, la vitalità e la progressione di un vino finalmente affrancatosi dai cliché e prepotentemente mediterraneo.

vendemmia-calzo-1E’ il suggello, l’ultimo in ordine di tempo, di una scommessa alimentata “a sentimenti”. Simone Ghelli, al Giglio, di amori ne ha conosciuti due: una donna e una terra, quanto basta per gettar le basi ad un progetto di vita e di vigna, in compagnia di qualche amico, come Manfred Ing, già enologo a Querciabella, in Chianti Classico. L’uva ansonica, secolarmente acclimatatasi al sole, alla siccità, ai venti e ai suoli granitici dell’isola, è il privilegiato testimonial di una dote irrinunciabile: l’attitudine.  Come lei, nessun’altra uva piantata lì avrebbe potuto farcela con la stessa probabilità di uscirne vincitrice. Ecco, quella attitudine risplende tutta nel mio bicchiere di oggi.

Così abbiamo un’isola, e pure un tesoro: il racconto può partire, assieme alla ricerca di almeno una di quelle 2000 bottiglie di scogliera. La parvenza di un approdo, dopo tanto mare.

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Arbois Trois Cépages 2013 – Domaine du Pélican (Marquis d’Angerville)

20171129_133019Per un attimo, assaggiando questo vino (oddio, assaggiare è un verbo fin troppo ossequioso, perché la bramosia del possesso qui ha assunto ben presto accenti da drop out) il mio pensiero è subito andato a Guido e Mariella della Locanda Mariella di Calestano, sui monti “sparsi” della Cisa, indimenticabile avamposto di competenze enoiche e cultura materiale. Perché il Jura, regione franciosa e montanara culla di vini dialettici, è la loro seconda casa, affettivamente parlando: loro mi introdussero agli autori e ai vini di quei luoghi, e a loro devo gli stimoli per l’approfondimento che ne è seguito.

Il pensiero è durato un attimo, perché basta un attimo al rapimento, uno solo perché quel vino ti entri in circolo, dopodiché non ce n’è per nessuno. Una vertigine d’eleganza, un soffio “librato” che porta con sé tutto il bene del mondo, capace di lacerare quel velo sottile che divide un prodotto di fine artigianato enoico dall’opera d’arte, e passare oltre.

Danza sulle punte e sa di tutto, l’Arbois 2013 di Domaine du Pélican, ed è uno dei rossi più sublimi mai assaggiati fin qui. Non è quindi un caso se una apprezzata maison borgognotta come Marquis d’Angerville abbia inteso estendere i propri confini produttivi on the other side, dopo aver rilevato gli storici vigneti di Jacques Puffeney, vignaiolo simbolo di quelle terre.

D’altronde, e più umilmente, anch’io mi sono sentito a casa in compagnia di un vino così. E siccome sentirsi a casa è un sentimento tanto alto da sprigionare ringraziamenti, questi ultimi vanno all’amico Fabio Rizzari, fedele custode e fornitore della bottiglia galeotta.

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Barbaresco Rio Sordo 1989 – Marchesi di Barolo

rio-sordo-89Forse è proprio perché alcuni giorni fa mi sono ritrovato nel vigneto Rio Sordo di Barbaresco, che ho pensato a lui. E a ben vedere già un mesetto addietro ne stavo giustappunto parlando con gli attuali proprietari della Marchesi di Barolo, Ernesto e Maria Abbona, nella loro casa-cantina di Barolo, con affaccio prepotente (e bellissimo) sul borgo antico. Non poteva quindi essere altrimenti, una volta individuata l’occasione giusta: la condivisione era nell’aria.

Lo ammetto, riponevo poche speranze di trovarlo ancora in vita. Ma non per partito preso, solo perché questa bottiglia è approdata a casa mia dopo non so quanto vagabondare, dal momento in cui la rintracciai per caso una decina d’anni orsono sotto un capannone di eternit in cui erano state ammucchiate le mercanzie più disparate frutto di ingiunzioni fallimentari. Il prezzo super abbordabile e la forza evocativa del cru hanno fatto il resto.

Dopodiché, in mia compagnia, si è fatto un paio di traslochi e qualche estate non propriamente al fresco. Era giunto il momento di sacrificarlo, ed è stato un soul sacrifice. Intanto si è lasciato stappare senza forcipe, e già questo… Il colore poi è risultato miracolosamente ignaro del giogo temporale. La trama gustativa era di un candore e di una raffinatezza rare, confidenziale, delicata, salina. Per un’ora intera ha reagito all’aria in modo superbo. Poi i profumi hanno iniziato a virare su derive più mature e confuse, opacizzandosi un po’. Di contro, la saldezza struggente di quel sorso è rimasta. Ma ora lo so: era nata per rimanere.

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Pessac-Leognan Château Pape Clement Grand Cru Classé de Graves 1988

pape-clement-88_etiA proposito del dover resistere, o del voler resistere, al tempo. Hai voglia te di barcamenarti sull’annosa questione riguardante il presumibile potenziale di longevità, se siano cioè più longevi i mitici Borgogna o i mitici Bordeaux. Più vado avanti e più mi sto convincendo che la bilancia penda decisamente a favor d’Acquitania, e non di Digione (e dintorni). Troppe le testimonianze, tanto da far statistica.

Prendi ad esempio Pape Clement ’88, figlio di una vendemmia considerata classica ma un po’ “rigida”, ingessata, sicuramente non eccelsa. Ora, sarà stata anche ingessata, ma ‘sto rosso qua a trent’anni o giù di lì mica fa una piega al tempo! L’integrità, la compostezza, la tonicità restano impressionanti, oggi come ieri. I terziari non sa manco cosa sono. E se il timbro dell’annata, come mi suggeriscono gli esperti, potrebbe risiedere in quella leggera vacuità riscontrabile a centro bocca, che per un attimo va a creare una intermittenza alla continuità, ben venga quel timbro, di fronte a cotanta capacità di racconto !

Il Gevrey-Chambertin 1er Cru Les Cazetiers 2002 di Bruno Clair, per dire, assaggiato fianco a fianco nel medesimo contesto, sia pur figlio di un’ottima annata in Borgogna e pur essendo di ben tredici vendemmie più giovane rispetto a “Papa Clemente”, non ha palesato egual vitalità. Piacevole eh, non c’è che dire, ma piuttosto contemplativo, pacificato, assorto, senza il cambio di passo atteso.

E’ solo un esempio, l’ennesimo, però quanto saranno buoni i Bordeaux quando invecchiano ?

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Le foto del Giglio e della vendemmia al Calzo sono di Claudio Mollo

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FERNANDO PARDINI

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