

Parto da qui, anche se poi non sono così sicuro che si tratti di una partenza o, piuttosto, di un punto di arrivo. La Valle del Lamone è la vallata più interna che ho visitato, dopodiché mi sono spostato a Est, sempre di più. Eppure le caratteristiche orografiche, pedologiche e climatiche che ho apprezzato lì hanno lo straordinario potere di raggrupparne tante, come un Bignami di Romagna, e per questo la Valle del Lamone è anche un po’ tutte le altre; perché è un coacervo, una miscellanea, un incrocio: niente di meglio per partorire diversità.
Dalle argille basse a quelle alte, dalle marne arenacee alla via del gesso, lungo costoni che si innalzano e si piegano secondo diverse esposizioni e giaciture, vi si incontrano formazioni geologiche afferenti al Miocene, al Pliocene e al Messiniano, ed un microclima che se da un lato riflette la prossimità dell’Appennino – con l’aria di Toscana che si infiltra attraverso il Passo Colla- dall’altro offre il fronte compatto dei calanchi a difesa dai venti del Nord, rendendo a Brisighella (e dintorni) un afflato talmente mediterraneo da consegnare la vite e l’olivo a questi romagnoli di frontiera.
Ma il tratto accomunante di questo lembo di terra appartiene di sicuro ai vini, permeati da una speciale levità e da una speciale “sospensione”, in grado di tirar fuori più dalle sfumature di sapore che dalla concretezza materica la propria ragion d’essere, lì dove flessuosità, freschezza, sapidità e mineralità appaiono come le doti salienti in grado di fare la differenza, ben oltre la presenza scenica. E questo tanto più quanto più ci avviciniamo al confine con la Toscana, mentre dal versante faentino della valle il virgulto e la potenza derivati dalle argille fanno sentire maggiormente il proprio peso.
Cominciamo dunque da qui, da quattro autori nonché interpreti sinceri del territorio. Dai loro vini traspare, aldilà dei vitigni in gioco, una sostanziale diversità di accenti che mi piace poter ricondurre alle “pieghe” caratteriali dei rispettivi terroir. Di più, accondiscesa da una maniera di pensare la campagna quanto mai attualizzata, fatta di gesti puliti e consapevoli che si accompagnano a pratiche di cantina poco o niente interventiste, ciò che assieme alla dimensione piccola delle tenute fa lampeggiare i contorni di una vitivinicoltura artigianale e a misura d’uomo, che è poi la faccia nuova della Val Lamone e del brisighellese vitivinicolo, una delle punte di diamante di un movimento di pensiero che ha investito e sta investendo la Romagna tutta, o meglio, quella “buona” che si alza dalla pianura tenendo a debita distanza le fagocitazioni della Via Emilia e delle super produzioni, e che riscopre oggi nelle “terre alte” le sottese, enormi potenzialità ai fini di una meritata aspirazione al meglio. Come un futuro all’altezza.
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VIGNE DEI BOSCHI (Paolo e Katia Babini)
A Valpiana di Brisighella già “vedi” Marradi, ché quasi ne senti l’aria. Ci troviamo sulla dorsale appenninica tosco-romagnola, dove la gola della valle comincia a farsi più nervosa e le giaciture arrivano fino ai 500 metri sul livello del mare. Le vigne sono state piantate da Paolo Babini strappandole in certi casi ai boschi, mentre la particolarità del luogo (maturazioni molto lente), il microclima (elevate escursioni termiche giorno/notte) e i suoli (calcareo-marnosi a tessitura franca) gli hanno ispirato la messa a dimora del classico (albana e sangiovese) e di ciò che classico non lo è (riesling, pinot nero…). Lo ha fatto sotto l’egida di una manifattura attenta al rispetto ambientale e a tutto ciò che ne consegue. In soldoni, Paolo è uno dei pionieri della viticoltura biodinamica in Romagna, nonostante la sua avventura di vignaiolo, dopo i tanti anni trascorsi da consulente agronomo, sia abbastanza recente.
Da Vigne dei Boschi ho avuto in cambio vini rarefatti, longilinei, sottili, verticali, con un senso di leggerezza che non puoi non far discendere dal particolare terroir. E’ ciò che marca la differenza, croce e delizia ai fini della diversità, da che è un terroir selettivo e non tutte le stagioni son buone per portare a completa maturazione le uve. Ma la scommessa ha le sue ragioni, e se parliamo oggi di “un’altra” Romagna del vino, Vigne dei Boschi di Paolo e Katia Babini è un’apripista. Ah, dimenticavo, miglior guida di Paolo per esplorare il territorio non c’é, e te ne accorgi per come il suo volto si rasserena allorquando traguarda quell’orizzonte di collina, accarezzandolo con gli occhi per non fargli male.
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15 anime La Sapiente 2015 (riesling)
Fine e sussurrato, tutto in levare, suggestioni di pera williams e mineralità ne esaltano il sorso succoso, vivo, longilineo e slanciato, sostenuto da una lama fitta di acidità, con un pizzico di materia dolce e fruttata sotto ai denti, a ricordarci che il fiume che scorre qui sotto si chiama Lamone, non Mosella. Fra i migliori esemplari della specie, oggi, in Italia. E forse è bene cominciare a far mente locale!
Perséfone 2016 (albana vinificata in anfora, con il 20% della massa macerata sulle bucce; esposizioni a nord, vigna di 50 anni)
Ecco qua un esemplare ispirato di Albana appenninica, spogliatasi della generosità di forme e della grondante esuberanza fruttata che siamo soliti riconoscergli per recuperare ritmo, succo e tensione d’agrume sotto l’egida di una fisionomia sfumata, austera e compassata. Interessante!
Monteré 2015 (albana, affinamento di 2 anni in tonneaux, uscita nel settembre 2018)
Albana nobilitata, di finezza e sale, purezza ed ariosità. Dalla sua una grande naturalezza espressiva, amplificata in uno sviluppo lungo, seducente e fresco. Solo e soltanto territorio. Nient’altro. Per questo non lascia scampo, stagliandosi fra i migliori assaggi in bianco di Romagna.
Poggio Tura 2013 (sangiovese – alt. 450 metri slm)
L’evoluzione nel segno del sottobosco propizia una bel chiaroscuro di sapore, in cui si incrociano carnosità e purezza, fibrosità e speditezza. E se il pizzico di calore tipico dell’alberello si estrinseca di più ai profumi, è al palato che recupera tutta la scioltezza necessaria. L’allungo perentorio di marca salina è illuminante, e ti parla di territorio come pochi altri sanno fare. Ineludibile la personalità.
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VIGNE DI SAN LORENZO – FILIPPO MANETTI
Fognano di Brisighella, San Lorenzo in Campiume: nomi tutto men che conosciuti, portatori sani di antichi ricordi appartenuti a piccole comunità di anime sparse nelle terre alte del brisighellese, già in odor di Appennino. Sono intimità di confine, appartate e montanare, e sortiscono un effetto strano che ha a che vedere con la tenerezza. Ci troviamo nella alta Valle del Lamone, caratterizzata dai venti e da sensibili escursioni termiche, da diverse giaciture a disposizione -più o meno elevate- e da suoli marnosi a tessitura franca. Ci troviamo da Filippo Manetti nella sua Vigne di San Lorenzo.
Storia recente la sua, ma chiaramente figlia di un innamoramento. Difficile non scorgere infatti, nei modi di Filippo, la vivacità intellettuale e la passione autentica. Oggi le esprime muovendosi con curiosità da apprendista alla ricerca delle virtù dell’Albana di altura, adottando macerazioni sulle bucce e vasi vinari differenti – anfora georgiana inclusa- a conferire struttura, fibra e fondamenta a vini presumibilmente un po’ ossuti e profilati dall’acidità. In più lavora il Sangiovese con una idealità e una aspirazione che ci riconducono a certi vini chiantigiani. Qui i profili si assottigliano, le trame si fanno flessuose e delicate. Dopo aver incontrato questi vini una cosa è certa: c’è un timbro, fra torba, pietra focaia e fumé da brace di camino spento, che li riconduce agli stessi alvei e allo stesso pensiero. Se non è buon segno questo!
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Gea (albana annata 2017, 5 giorni di macerazione sulle bucce)
Mi piacciono il ritmo e la vibrazione acida, e quel tono affumicato a prefigurare l’incidenza di un qualcosa che poco ha a che vedere con l’uomo ma scava più a fondo, un qualcosa che non ti inventi e che riguarda quelle pieghe di collina. Vino ben congegnato nei meccanismi del piacere, espansivo, gradevole.
Menis (albana annata 2016; macerazione sulle bucce per 9 mesi in anfora georgiana)
In una dimensione originale quanto trasfigurata, cera, miele di castagno, resine e torba innestano un cortocircuito di sapori quasi stordente, tanta la diversità. Certo il metodo vince su vitigno e terroir, ed in tale ottica il conseguimento è un conseguimento a metà, ma il quadro intriga e stimola, e ti aspetti che l’evoluzione possa portare qualcosa in più agli equilibri e all’armonia di un sorso.
Campiume 2015 (sangiovese, affinamento di 2 anni in tonneaux)
Giocato su un apparenza fragile, probabile discendenza di un certa parsimonia in solforosa, la fisionomia sfumata e “pinotteggiante” è seducente, fondata com’é sui toni del rabarbaro, della ciliegia macerata, delle infiorescenze e dell’affumicato (una timbrica che ritorna e che ritroviamo in ogni vino di Filippo). Tutto è accennato qui, tutto è in levare. Non avrai la profondità, quella no, ma uno stile apprezzabile, sincero.
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ANDREA BRAGAGNI
Il territorio è sempre quello di Fognano di Brisighella, ma ci troviamo sul fronte opposto della valle rispetto a quello di Campiume, caratterizzato da esposizioni fresche, altitudini medio-alte ( 350 metri slm) e suoli particolari di medio impasto sabbioso con pochissima argilla a contorno e tanto, tanto calcare.
E’ il regno di Andrea Bragagni, vignaiolo-artigiano di culto a cui appartengono umiltà e determinazione. E’ difficile che abbandoni la sua terra, quello sì, da che intende osservarla in ogni sua “mossa”. Con la vita che la senti proprio dipendere da quegli anfratti di collina, lì dove vive e dove lavora i pochi ettari di vigna.
Sangiovese e Albana le sue creature, dove il primo è un tipo disadorno, ossuto, dai tannini “soffiati”(quando l’annata è quella giusta!), il passo slanciato e delicatamente fumé, la trama più affusolata che ampia, provvisto però di una filigrana sapido-minerale in grado di far drizzare le papille a chi ha la pazienza di ascoltare; il secondo sfrutta macerazioni sulle bucce e vinificazioni in acciaio per regalare carattere, pietra focaia e sale, che sono altra cosa rispetto alla scontatezza.
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Rigogolo 2017 (albana, macerazione in acciaio, solo magnum)
E’ ancora presto, è ancora giovane, una percettibile carbonica smuove la progressione anche se non ne favorisce l’armonia e l’equilibrio. Da notare semmai il ritmo, la vena agrumata, la spinta acida e il carattere. Per questo è vino da attendere .
Rigogolo 2009 (albana, macerazione in acciaio, solo magnum)
Una macerazione ben digerita apre ad un gusto pieno, maturo, di spessore. E se lo spettro aromatico resta momentaneamente marcato da un umore di “zolfino”, è al palato che rifulgono appieno il tratto impettito della sua trama -tutto grinta ed austerità- e la chiusura limpida sulle note di pietra focaia.
Casa del Frate 2012 (sangiovese)
Un po’ scorbutico e rugoso, l’evoluzione terrosa non ne pregiudica franchezza e “tono” acido. Su richiami affumicati di pietra focaia (ancora), trova respiro migliore con l’ossigenazione, che va scoprirne una dote tannica saporita e leggera, anche se l’annata – forse – non è di quelle indimenticabili.
Testa del Leone 2010 (sangiovese, solo nelle annate migliori)
Qui si cambia passo, checchennedica l’apparenza agé deducibile già a partire dal colore in trasparenza. Qui risalta per intero tutta la forza del calcare, che ad una silhouette disadorna associa un sapore infiltrante, salino, progressivo, caratteriale, ed una trama in sottigliezza che spinge e si slancia. Longilineo, silente e personale, lascia il segno e si attesta fra i migliori assaggi in rosso di Romagna.
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QUINZAN – PIETRO BANDINI
Siamo nelle “argille basse” alle porte di Faenza e una cosa è certa, da Quinzàn si respira aria di fattoria, di fattoria vera. Pietro Bandini ne incarna appieno l’anima e le idealità, un po’ artista e un po’ contadino. Un contadino strappato alla musica, diciamo, o forse il viceversa, chissà. I suoi vini non possiedono la levità e le sfumature di quelli d’altura, qui le argille imprimono la loro marchiatura e la materia si inspessisce, le trame si fanno saporite e fibrose. La vibrazione interna però accoglie sempre una matrice sapida-minerale, retaggio di quei suoli ferrettizzati con strato aerobico di gesso, e il territorio in quel dettaglio si esalta.
Restituiscono appieno il carattere ruspante del loro artefice, ecco cosa fanno: sono calorosi, intensi, schietti, sinceri, e concretizzano uno di quei casi di corrispondenza euritmica tanto cari ai wine lovers quanto ai narratori di storie. E Pietro, in fondo, di storie resta un narratore. Lo ha fatto e ancor lo fa sotto forma di canzoni, ama esprimersi nella lingua-dialetto romagnola, tiene corsi didattici per bambini per non disperdere le tradizioni orali, e quella lingua la utilizza – ovviamente – anche per nominare i vini, che sono a base di albana, trebbiano, sangiovese e centesimino (di quest’ultimo, in versione passita, si invaghì un certo Luigi Veronelli).
Anni fa ideò una festa-tributo alla campagna, divenuta oggi un appuntamento imprenscindibile per migliaia e migliaia di visitatori da ogni dove; un percorso itinerante fra aie e poderi dove poter respirare tipicità di vini e pietanze contadine allietati dalle musiche popolari suonate da gruppi di ogni provenienza, anche internazionali, nel nome della contaminazione interculturale, della fratellanza fra i popoli e della terra.
Ah, nella sua personale discoteca, rigorosamente in vinile, ci ho trovato persino John Mayall e il primo Van Morrison, per dire, e già questo fa prendere tutta un’altra piega al coinvolgimento emotivo e all’empatia di un incontro. Diciamo che ogni terra avrebbe bisogno di fattorie così.
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Din Dòn 2017 (Trebbiano)
La schiettezza al servizio del sapore. Fior di camomilla in un sorso espressivo forse a corto di freschezza acida, e per questo un po’ malinconico e assorto. Quanto a sincerità espressiva e a rispetto varietale però…..
Lòm a Merz 2016 (Sangiovese)
Grintoso, intenso, saporito, la ruspantezza non scende a compromessi con la rusticità, il vino vibra e si tende, trasmettendo una sensazione di forza e di freschezza maritate, e una chiusura ferma di marca sapida-minerale. Distintivo.
Romeo 2016 (Centesimino)
Molto aromatico, sono kirsch, ciliegia nera ed erbe officinali; è terroso, irruento, primattore, dal corpo saldo e dal tannino rugoso, non si nasconde dietro a un dito e te lo fa scontare tutto il suo carattere umorale e spigoloso. Di certo non lascia indifferenti, anche se garbo e suadenza tattile appartengono di più alla versione Passita, forte, passionale e circuitrice.
Nota: tutto questo fiorire di incontri, di viaggi e di esperienze non avrebbe avuto il corso che ha avuto se non ci fosse stata la mia fida guida locale, l’amico e collaboratore Marco Bonanni, fine conoscitore della sua terra e del sentimento umano che la muove.
ALTRI CONTRIBUTI
Colli di Faenza, Castrocaro e dintorni (con un fuori pista)