Assaggi a tema libero, fra Natale ed Epifania

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Trento Riserva Extra Brut Blauwal 2010 – CESCONI

img_0873Me l’avevano detto che la Riserva Blauwal dei fratelli Cesconi (Lorenzo, Franco, Roberto e Alessandro, i figli di Paolo, ancora oggi attivo in azienda) era un metodo classico “diverso” dagli altri. In realtà la parola usata era “grandioso”. E così si è rivelato. Il nome, “balena azzurra” in tedesco, compare in un quadro che il tedesco Rainer Zierock (professore all’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, profondo conoscitore del mondo del vino, ex marito di Elisabetta Foradori) aveva regalato ai Cesconi in previsione di un futuro metodo classico.

Nasce da uve chardonnay provenienti solo dalle vecchie pergole quarantennali (l’ampio fogliame di questo impianto protegge maggiormente le uve dal caldo, donando più equilibrio alle cuvée), coltivate secondo agricoltura biologica e poste sulle colline di Pressano, in località Garli, a 300 metri di altitudine. Pressatura soffice con resa finale del 50%, fermentazione alcolica e malolattica in barrique usate. Rifermentazione in bottiglia con aggiunta di zucchero e lunga sosta sui lieviti per 84 mesi. Sboccatura: luglio 2018.

Colore paglierino luminoso, riflessi cristallini. Profumi di nitidezza minerale ed eleganza pietrosa (roccia umida, scaglia calcarea) con lieviti fini che punteggiano l’olfatto in continue vibrazioni. C’è tutta l’ariosità e la complessità dello Chardonnay invecchiato. Palato succoso, teso, laminato, sottile, penetrante, dalla bollicina fine e crepitante, dal sale crescente, dal finale avvolgente, minerale, continuo. Ancora la pietra, ancora la roccia, ancora la montagna. Il boisé del legno, del tutto sottocutaneo, diventa fumé, sfumando il profilo, aggiungendo sottili nuance e integrandosi perfettamente. Terso, compatto, persistente. Un esordio che stupisce. Il Giulio Ferrari ha finalmente trovato un antagonista?

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Pietranera 2017 – MARCO DE BARTOLI

image1Giustamente celebre per il suo Vecchio Samperi – il Marsala prima del Marsala, il Marsala del metodo perpetuo (più tardi ribattezzato Solera) prodotto da sempre nelle campagne locali – e non meno famoso per il suo Bukkuram, indimenticabile Passito di Pantelleria, Marco De Bartoli, vignaiolo al contempo tradizionalista e innovatore, ha sdoganato nel 1989 la via secca dello zibibbo pantesco, inaugurando un nuovo modo d’intenderlo e volerlo.

Nasce così il Pietranera, nome che rispecchia la terra lavica dell’isola che non assomiglia a nessun’altra. Il bianco che oggi i figli Renato, Sebastiano e Giuseppina continuano a produrre ha davvero pochi eguali, non solo a Pantelleria, non solo in Sicilia, non solo in Italia. Assaggiando il 2017 i sensi tramortiscono: cenere vulcanica, capperi, spremuta di agrumi. Un florilegio di sensazioni salmastre, un evocativo concentrato della natura più impervia e profonda dell’isola, una sublimazione acido-sapida dello zibibbo fatto appassire. Irresistibile, se ne beve a secchiate, ancora e ancora, la bottiglia finisce a tempo di record, la sete è incalzante come il sale che lo anima: un bianco che trasfigura il nero lavico della sua terra.

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Soave Classico Monte Fiorentine 2008 – CA’ RUGATE

fullsizerenderPerfezionista quanto eclettico, Michele Tessari non lascia nulla al caso e da decenni si cimenta con brillantezza in tutte le principali tipologie dell’enologia veneta e italiana: bianchi da monovitigno e rossi da uvaggio, sontuosi passiti, spumanti di gustosa verve. Tutti vini con la dote del carattere varietale e territoriale, declinati con stile impeccabile, capaci di evolvere e invecchiare con grande disinvoltura.

Prendiamo questo Soave Classico, ad esempio, che nasce in una delle culle vulcaniche della denominazione, le Rugate. Dieci anni e non sentirli. Il colore è un giallo paglierino-dorato di perfetta luminosità. Di più: cristallino. Ovvero «simile al cristallo», «chiaro, limpido, terso», secondo le definizioni del Vocabolario Treccani, quanto «corpo trasparente dell’occhio», secondo un principio anatomico. Ebbene, dentro questa brillante luminescenza si articola un bianco dagli allietanti profumi di frutta bianca e gialla, di agrumi freschi, di note minerali, di erbe, che non tradiscono minimamente l’età, anzi sembra un vino imbottigliato da pochi anni tale è la sua intatta fragranza. Il palato non è da meno: succoso, maturo, invitante quanto fresco, dinamico, verticale, di fibra tutta nordica. Finale a trazione anteriore, sapido e vulcanico. Scintillante.

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Besler Biank 2006 – POJER & SANDRI

img_0901Spesso l’adagio “è ancora chiuso, si aprirà con il tempo” è abusato, talvolta è una mezza scialuppa di salvataggio per dire in modo garbato, quasi eufemistico, che il vino non è molto convincente e forse in futuro ritroverà se stesso, ma in altre occasioni sposa la verità delle cose. È così, ad esempio, per i vini – tutti i vini, e non può essere un caso – di Mario Pojer. Vale per la sua Nosiola come per la Vendemma Tardiva Essenzia o il Rosso Faye. Beh, quasi tutti i vini (l’eccezione conferma la regola): il Besler Biank è forse l’unico a essere espressivo da subito. Mario lo produce in Val di Cembra (il Maso Besler è situato in località Valbona) con il riesling e i suoi più nobili discendenti: kerner (incrocio genetico tra riesling e trollinger o schiava grossa) e incrocio Manzoni 6.0.13 o Manzoni Bianco (riesling + pinot bianco). Questo, quantomeno, è l’uvaggio definito a partire dal millesimo 2008: in precedenza erano presenti anche sauvignon e pinot bianco.

Le vigne sono piantate a ritocchino la cui pendenza massima raggiunge il 50%, il terreno presenta strati di sabbie brune ricche di scheletro sotto la roccia porfirica. Espressivo da subito quanto capace di evolvere ed emozionare nel tempo. Lo testimonia questo meraviglioso 2006 ancora prodotto con il vecchio uvaggio, con una raccolta scalare delle uve (al tempo non ancora lavate come oggi) e vinificazioni separate, con fermentazione e affinamento in legno di acacia per un anno: colore dorato intenso e brillante; profumi di pietra focaia, erbe di montagna, menta, agrume candito, spezie; palato denso e snello, succoso e slanciato. Che carattere e che scioltezza!

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U Neigru – POSSA

img_0875Vignaiolo tenace, instancabile e appassionato, Samuele Heidy Bonanini si è ritagliato nel giro di pochi anni uno spazio produttivo importante (due ettari e mezzo, ma continua ad acquisire nuovi terrazzamenti) nel contesto eroico delle Cinque Terre.

Le vigne in località Chiappella, a Riomaggiore, caratterizzate da terreni «scagliosi e irti» (giusto per citare D’Annunzio), scendono letteralmente a strapiombo sul mare. Noto per un Cinque Terre che sa di mare e per uno Sciacchetrà prodotto addirittura in tre versioni, una più interessante dell’altra, Bonanini vinifica anche un rosso di particolare personalità, derivato da uve locali dai nomi toscaneggianti (cannaiolo, bonamico).

Parte delle vigne del bonamico sono centenarie, le altre hanno vent’anni di età: esposte nel punto più caldo, molte sono nella parte più bassa dei terrazzi di Chiappella, a contatto quasi con l’acqua. Nascono su suoli scistosi e arenacei, la vendemmia è anticipata a fine agosto, con macerazione di 4 giorni e fermentazione/affinamento in barrique usate di rovere e castagno.

Il 2017 (ma l’annata non è riportata in etichetta) ha colore rubino chiaro e un naso che sprigiona sensazioni di macchia mediterranea, di oliva, di erbe aromatiche, di acciuga, di ciliegia selvatica. Palato conseguente: salmastro, ematico, mediterraneo, persistente. Il trionfo della tapenade (capperi e olive) e della garrigue, del sangue d’acciuga, dei pini silvestri.

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Limine 2012 – FRASCOLE

image2Quando Enrico Lippi me lo ha fatto assaggiare la scorsa estate in cantina (siete mai andati da Frascole? Non ancora? Andateci: è luogo ameno, accogliente, incontaminato, scandito dai silenzi e dal respiro di una natura lussureggiante), ancora un po’ mi cascava la mandibola. Questo è Merlot?!, ho esclamato. È il Merlot che non ti aspetti, è il Merlot che rifugge da qualsiasi cliché su questo rosso tondo e un po’ piacione recentemente diventato – con forti ragioni – il nemico numero uno di chi cerca vini di personalità. È un Merlot della Rufina: ecco la chiave di lettura, il mistero spiegato.

Un Merlot di anima chiantigiana, di quel Chianti d’altura immerso in una natura meravigliosa e selvaggia che ancora troppo in pochi conoscono. Il nome latino del vino apre le porte alla frontiera, al confine, alla soglia. La vigna è a 500 metri, nella parte più alta del podere, esposta tra sud e sud-ovest, dove si apre la valle del Falterona (la fattoria si trova sulle colline di Dicomano).

Il terreno, originato dal disfacimento delle marne di Vicchio, ha composizione prevalentemente argillosa con inclusioni di sottili strati arenacei. Le uve, coltivate secondo agricoltura biologica dal 1999, sono raccolte a ottobre, un’epoca quasi impossibile per il merlot nel resto d’Italia. Il primo anno di produzione è stato il 2008. Fermentazione in cemento, maturazione per un anno in barrique (di cui solo il 30% nuove), affinamento in bottiglia per almeno due anni.

Riaperto oggi, mi ha fatto lo stesso effetto di Ferragosto. Tripudio di sottobosco, macchia mediterranea, frutta rossa, toni balsamici. Palato succoso e slanciato, profondo e fresco, avvolgente e ritmato. Il “limine” è anche stilistico, e questo Merlot non assomiglia a nessun altro della sua categoria. Quando si dice il “terroir”.

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Vin Santo del Chianti Classico 1983 – CASTELLO DI MONTERINALDI

img_0877Per la serie: cose buone che non conoscevo. Sono venuto in possesso di questa mezza bottiglia quasi per caso. Ero a Sacile per la presentazione del mio libro sui vini dolci e nelle varie prelibatezze che adornavano i tavoli della sala centrale di Palazzo Ragazzoni c’erano anche alcune annate del Vin Santo del Castello di Monterinaldi, luogo storico del Chianti Classico, sede a Radda e una storia che risale agli inizi dell’anno Mille.

È di proprietà della famiglia Ciampi dal 1961. Fautore di uno stile tradizionale, Daniele Ciampi produce un Vin Santo che non si scosta dal protocollo più conosciuto: il trebbiano toscano e la malvasia del Chianti, che compongono rispettivamente il 60% e il 40% dell’uvaggio, vengono fatti appassire sottotetto per 4 mesi sui cannicci con una maturazione di 5/6 in caratelli di castagno sigillati.

Questo 1983 arriva però da una partita particolare, ritrovata dopo molti anni: quando nel 1997 l’azienda ha deciso di ricominciare la produzione del Vin Santo, sono stati ritrovati nella soffitta della villa padronale ben 70 caratelli dimenticati da decenni. Così il 1983 è stato imbottigliato nel 2016 dopo 33 anni di permanenza nel castagno: quasi un record. È stato calcolato che dai 5000 chili di uve fresche di partenza si è arrivati a produrre 650 litri di vino, una resa microscopica.

Il profilo è a dir poco magnetico. Colore mogano-ambrato. Olfatto che al più classico e irresistibile registro ossidativo di granai e frutta secca (noci, mandorle, fichi) affianca un particolarissimo, avvincente sentore di scorza d’arancia che lo impreziosisce, allieta e rilancia. Palato non particolarmente grasso, ma di buona densità, con ottimo equilibrio acido-zuccherino e una scia potente e persistente di frutta secca, miele, caramello, zabaione e… arancia sanguinella! Contrasto da urlo, bocca radiosa, sviluppo aperto a ventaglio, finale incessante.

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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