Lo spirito che resta

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Mi sono sempre chiesto da dove le passioni provengano, e in quale modo si radichino nella nostra anima per non uscirne più. Il vino mi entrò dentro tanti anni fa; ricordo ancora, nell’era cartacea, con quanta dedizione divoravo qualsiasi pubblicazione enologica o i chilometri a fondo perduto macinati nell’ansia di percorrere ogni paesaggio viticolo conosciuto. Oggi che il vino è la mia professione pagherei qualsiasi prezzo per una scintilla della medesima febbre di allora.

Fino a poco tempo fa legavo la passione alla gioventù e all’entusiasmo proprio di quell’età, per la quale ogni impresa appare possibile. In definitiva ritenevo improbabile potersi “fissare” su qualcos’altro. Mi sbagliavo, per fortuna, perché da qualche tempo ho cominciato a sentire il whisky con quel tipo di ascolto intento a scoprire i dettagli, a cogliere sfumature e a comprendere le trame più segrete, connotati inconfutabili di una passione nascente.

Non è compito facile costruirsi una cultura del whisky. Si tratta di un mondo molto complesso che intreccia antiche storie produttive, bottiglie erranti in ogni angolo del mondo, singole botti di distillerie ormai chiuse, acquistate da grandi appassionati o da distributori, perse chissà dove; per non parlare del costo di accesso agli esempi alcolici paradigmatici e necessari per costruirsi una minima competenza sul tema. L’inizio di ogni apprendimento disorienta, è vero, ma è in questa complessità che si palesa il fascino del whisky.

La sua origine ha a che fare con un paesaggio mitico che ancora oggi, per la sua estrema identità e isolamento, non risulta pienamente indagato. Il whisky racchiude la forza degli elementi naturali: la struttura dell’acqua, fondamentale in tutto il processo produttivo, il calore e gli aromi del fuoco generato dalla combustione di una terra antica anch’essa fondamentale al sapore del liquido, la brezza che soffia a quelle latitudini in grado di creare un ambiente unico di maturazione. E poi l’uomo con il suo lavoro secolare e la tecnologia forgiata dall’esperienza che ha scelto i cereali più adatti alla distillazione, i legni di affinamento e i periodi di maturazione più idonei. Infine, la storia contemporanea del whisky è fatta di persone che sono riuscite a divulgare il fascino di questo alcolico selezionando botti e bottiglie di inestimabile valore, culturale e gustativo.

Ho iniziato da poco ad addentrarmi in questo universo con assaggi, letture e riflessioni sempre più frequenti. Il mio battesimo è stato il Milano Whisky Festival dello scorso novembre. Si tratta della rassegna più importante di degustazione di whisky oggi in Italia, con alcuni dei più importanti distributori e selezionatori nel nostro paese ed oltre 2000 whisky in assaggio. Da vero e proprio “pivello”, mi chiedevo come fosse possibile assaggiare tanti campioni a gradi alcolici così elevati senza perdere lucidità. La risposta stava all’ingresso del salone dell’Hotel Marriott di Milano, sede della manifestazione. È possibile infatti acquistare alcune boccette di varia capacità (2/4/6 cl) da portare a casa con i proprio spiriti preferiti: idea semplice e geniale. Ed ecco il resoconto di quegli assaggi che ho portato con me dentro il giubbotto, sopra il cuore, veri e propri spiriti che restano.

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Springbank 21 y.o. Cask 164 54,2 % vol.

Facile iniziare da un mito personale. Ho conosciuto lo Springbank grazie al libro La versione di Barney di Mordecai Ritchler, e da allora non me ne sono più separato. Ho modulato il mio apprezzamento sui malti grazie alle coordinate che questo whisky ha saputo tracciare sul mio palato. Siamo a Campbell Town, in una distilleria ancora gestita a livello famigliare. Ma queste cose le sappiamo già. Quello che non si conosce è l’origine di questa cask 164, acquistata anni fa da una coppia italiana e recentemente rivenduta e imbottigliata. Siamo di fronte all’eleganza iodata di un liquido senza paragoni. La gradazione piena di 54,2 % non inficia lo sviluppo di aromi terziari come leggera torba e tabacco avvolti in un guscio marino che deposita sapore e sale sul palato. Un mostro di bontà.

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Longrow 14  y.o. Old Sherry Cask 57,8% vol.

Sempre Campbeltown, ancora un assaggio unico per il carattere spiazzante e in grado di stimolare nuovi sapori. All’inizio sono disorientato, per fortuna prima di metterne 6 cl nella mia preziosa fialetta incontro Jacopo, giovane e ottimo esperto che scrive per whiskyfacile.it, portale davvero interessante per confronti e suggerimenti alcolici. Per questo assaggio Jacopo tira fuori un concetto interessante. Vedendo il mio disorientamento di fronte a tale espressione gustativa con, d’acchito, flussi sulfurei che poi si dissipano mettendo in risalto profumi floreali di erica, torba e note medicinali. Ha spessore materico e finale secco che lascia un tipo di pulizia marina da meditare. «Si tratta di un terroir al contrario – mi spiega – nel vino l’ultimo elemento del terroir è quello umano, che determina l’espressione del vino. In questo caso invece l’ultimo fattore che determina il carattere dello spirito è il particolare microclima della cantina che interagisce con lo sherry cask usato per l’affinamento».

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Imperial 1995 46% vol.

Un’altra sorpresa della quale non sapevo nemmeno l’esistenza. In effetti si tratta di una distilleria dello Speyside, attiva in modo saltuario dalla fine dell’Ottocento fino al 1998 ma la cui produzione è rintracciabile in una quindicina di anni tra gli anni Ottanta e Novanta. In questo caso si tratta di una bottiglia consegnata ai posteri dai selezionatori olandesi di Ultimate Whisky. Mi stupisce per una nota delicata di frutta fresca, declinazione dello spirito mai sentita prima, a seguito note di fiori gialli e sensazioni balsamiche. Non avverto note marine, piuttosto un’eredità affidata agli echi di erba fresca falciata.

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Arran 10 y.o. 46% vol.

Mi soffermo su questo whisky semplice e diretto. Rifletto sul fatto che ho trasmesso le personali aspettative qualitative sul vino anche sui single malt. Apprezzo la snellezza e la bevibilità piuttosto che l’ingombro e l’opulenza. Questo liquido distillato nell’isola scozzese è quanto di meglio si possa richiedere per una propedeutica alla bevibilità degli spiriti. Esprime profumi freschi di erica e lieve torba che vira verso il mentolo. Il finale  leggermente amaro non scalfisce la bellezza del retrogusto, che esalta la filigrana del cereale.

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Kilkerran 8 y.o Cask Strenght 55,7% vol.

Un altro whisky da Campbeltown, e forse avrete capito in quale luogo la mia anima vorrebbe fondersi nella sua spiritualità alcolica. L’antica distilleria Glengyle è stata acquisita dalla famiglia Mitchell di Springbank e battezzata Kilkerran. Ero incuriosito dall’apparente paradosso tra la giovane età e la potenza alcolica: sarà possibile, dati i presupposti, una minima armonia gustativa? Un leggero impatto caustico non inficia l’espressione marina di questo spirito che ha nell’esuberanza il suo principale tratto gustativo. Si percepisce la nota torbata ma anche un’ondata di freschezza erbacea e marina, tipica -mi pare di poter azzardare- dei malti di Campbeltown. Forse non rimane molto dopo la deglutizione ma l’emozione repentina e improvvisa, da ottovolante, vale l’esperienza. Unica bottiglia che ho comprato all’evento.

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Piccola nota ai lettori. Chiedo venia per le piccole inesattezze e le omissioni. È il mio primo articolo sul whisky. Migliorerò in dettagli e competenza. La passione cresce.

Fabio Pracchia

Vive sulle colline lucchesi. È uno dei principali collaboratori di Slow Wine, la guida annuale del vino pubblicata da Slow Food Editore. Si occupa da circa quindici anni di vino e cultura cercando di intrecciare il lavoro alcolico con quello narrativo.

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