Si fa presto a dire Carnaroli! Parte 2: intervista al produttore Fabrizio Rizzotti

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Nel precedente articolo abbiamo parlato delle difficoltà del consumatore per riuscire a conoscere effettivamente la varietà di riso presente nelle confezioni reperibili sul commercio , a causa delle cosiddette “griglie” tipologiche che consentono legalmente di vendere con un nome noto (Arborio, Carnaroli, Baldo…) delle varietà diverse, simili solo per alcune caratteristiche fisiche a quelle che danno loro il nome.

Finalmente nel 2018 un decreto ministeriale ha cercato di sanare seppur parzialmente la questione, consentendo la dicitura “Classico” per sette risi della tradizione: Arborio, Baldo, Carnaroli, Roma, S. Andrea, Vialone Nano e Ribe. Questo consentirà soprattutto ai piccoli produttori che puntano sulla qualità e sulla tracciabilità a filiera corta del proprio prodotto di garantire al cliente che quello che è scritto in etichetta è effettivamente quello che andranno a mangiare. Sembra lapalissiano ma… non lo è.

Per verificare sul campo gli effetti di questo decreto, abbiamo intervistato un produttore del novarese, Fabrizio Rizzotti, da sempre innamorato del carnaroli storico e impegnato in una lunga battaglia per la qualità del prodotto-riso.

 

Quindi è così? Dal raccolto 2018 è possibile inserire in etichetta la dicitura “classico” per attestare che la varietà indicata è al 100% quella storica? Voi aderirete a questa possibilità? Che vantaggi dà al produttore il fatto di poter specificare la varietà reale?

Esatto. Per chi si è iscritto all’albo e ha seguito tutta la filiera, dal raccolto 2018 potrà indicare in etichetta la dicitura “Classico”. Noi abbiamo aderito e stiamo finalmente specificando in etichetta che il nostro carnaroli è il Carnaroli storico. Questo ci dà il vantaggio di veder riconosciuto il nostro lavoro. Sa, farsi un mazzo così per produrre qualità e poi vedere che con lo stesso nome si può vendere un riso diverso, simile solo per l’aspetto esteriore…

Come mai questa scelta di “fedeltà” al Carnaroli classico?

Vede, la svolta l’abbiamo fatta 20 anni fa, quando ho deciso di passare da produttore a produttore-trasformatore-venditore. È un cambiamento abissale. Solo così ti rendi conto che per sopravvivere devi lavorare sulla qualità. Se conferisci il prodotto in riseria, non puoi puntare alla qualità. In tutto questo, mi sono reso conto negli anni che la cosa basilare è la trasformazione. I macchinari industriali per la lavorazione del riso non sono studiati per i risi italiani: siamo una goccia nel mare dei risi mondiali, e i macchinari vengono ottimizzati per le varietà più diffuse a livello planetario, ovvero il basmati e il “tondo”, non per i risi di tipo italiano. I macchinari industriali devono avere due caratteristiche: necessitare di poca manutenzione e lavorare grandi quantità. Certo, il riso che ne esce è bianco, ma riso bianco non vuol dire nulla. È per come è lavorato che cambia il sapore. Per questo ho ricomprato macchinari del 1920: poca produzione, tanto rispetto per il chicco (e ahimè, tanta manutenzione!)

Tutto questo ricorda quello che succede nel campo del vino…

È esattamente come nel vino, ma a differenza del vino, la gente non conosce la ricchezza che può esserci nel riso. E questa ricchezza te la possono dare solo i piccoli produttori; l’industria da sempre punta a fare il Carnaroli senza Carnaroli. La legge del 1958, quella che istituisce le famose “griglie”, fu fatta su pressione dell’industria risicola. Il problema è che non c’è una cultura del riso; non dico in aree dove storicamente non si consuma riso, ma anche da noi, nel vercellese e nel novarese, non c’è cultura del riso.

Quindi come vede la legge dell’agosto 2018 che istituisce la denominazione “classico”?

Beh, meno male che ci siamo arrivati. Prima era come se si vendesse Barbera chiamandolo Barolo. Ma le dico una cosa: l’industria sta già elaborando le contromisure per ammiccare alla parola “classico”. Il consumatore non è preparato a distinguere, manca la cultura del riso.

La nuova filiera del Classico comporterà adempimenti burocratici o logistici onerosi o no?

-Molto onerosi sia a livello di logistica (stoccaggio ad hoc in ambienti separati di risi diversi) sia di adempimenti burocratici: devi iscriverti all’albo, dichiarare in anticipo quale campo e quanta superficie destinerai a riso Classico, quindi verificare le rese… Ma è anche giusto così: bisogna che la filiera sia rispettata alla perfezione per garantire la qualità al consumatore. Torno a dire, è come nel mondo del vino, dove i vigneti destinati a una certa DOC vanno registrati, il mosto e la resa in vino vanno quantificati e riscontrati. Tanto lavoro in più. Ma è vitale per sopravvivere puntando sulla qualità. E questo lo fanno solo le piccole aziende che fanno internamente anche la lavorazione.

Sia voi sia altre realtà produttive avete in gamma anche un Carnaroli invecchiato: a cosa serve invecchiare un riso?

Appena tagliato, l’amido del riso non è ancora cristallizzato; la lavorazione nei primi mesi (sbramatura dalla lolla, lucidatura) farebbe perdere le caratteristiche organolettiche più positive. Generalmente il riso si inizia a lavorare a febbraio, dopo 3-4 mesi dal raccolto. Dopo questi mesi, la maturazione dell’amido procede più lenta. Nel caso del nostro riso invecchiato, facciamo maturare il risone (il chicco rivestito dalla lolla, così come viene raccolto alla trebbiatura) per un anno intero, poi procediamo a lavorarlo. Per noi un anno è il rapporto ottimale tra qualità e costi di gestione.

Risi storici e risi nuovi: voi producete anche un riso molto innovativo, l’Artiglio, orientato verso la cucina orientale…

Sì, l’Artiglio, un riso di nuova selezione di tipologia “lungo B”, che ha caratteristiche uniche: tempi di cottura ridotti (8-10 minuti) con un alto contenuto di amilosio che gli consente di non restare colloso e di non scuocere. Ha in pratica i pregi del parboiled senza avere il gusto standard del parboiled, quindi è perfetto per insalate di riso di ottimo livello.

Cosa si può fare per aumentare nei consumatori la cultura del riso, in modo da rendere la loro scelta più consapevole?

Né più né meno di quello che si fa nel mondo del vino: manifestazioni, mercatini, lavorare con il mondo della cultura e dell’informazione… e tanto lavoro per spiegare le differenze, soprattutto con le visite guidate in azienda. Noi siamo felicissimi di far conoscere ai visitatori i nostri campi e la nostra riseria. Solo conoscendo dove e come nasce un riso lo si può apprezzare. E invece, pensate, nei nostri territori non c’è una festa del riso, non esistono manifestazioni di una certa dimensione che attraggano da fuori i consumatori e facciano da cassa di risonanza…

Se nel mondo del vino “piccolo è bello”…

Purtroppo nel mondo del riso stiamo invece assistendo a una concentrazione delle proprietà in mano alla grande industria. Fino a pochi anni fa c’erano 4-5 grandi gruppi, oggi la concentrazione li ha ridotti a 3. Stanno scomparendo le aziende di medie dimensioni, ed è un problema enorme. Le grandi aziende puntano a budget e fatturato, non certo a fare qualità. Resisteranno solo i piccoli produttori che lavorano l’intero ciclo in azienda, coltivando, lavorando e vendendo. Santo cielo, il riso non è solo amido!

Questa nuovo decreto può avere conseguenze negative? Ossia: se un produttore non segue la filiera del “Classico” pur seminando Carnaroli autentico (per esempio da sementi autoprodotte), vedrà il proprio riso deprezzato per non poter avere la dicitura “Classico”?

Esatto. Un produttore che non aderisce alla filiera vedrà il suo riso valutato come quello della griglia di appartenenza… e alla fine poi dovrà conferire, vedendo il proprio margine ridotto all’osso. Chi glie lo farà fare di coltivare il Carnaroli vero?

Quindi luci e ombre in questo decreto…

È una toppa che viene a sanare un problema reale, ma il problema andava risolto all’origine: chiamare ogni varietà con il suo nome. La legge sulle “griglie” è stata fatta su pressione dei grandi produttori. Il nome famoso tira e allora… tutti dietro a quel nome, inflazionandolo.

Quanto è grande la vostra azienda?

Abbiamo 80 ettari di risaia, che è una dimensione molto piccola in risicoltura. Riesco a stare sul mercato perché la qualità premia, e perché seguo tutto il ciclo. Altrimenti, se sei un produttore-conferitore, devi avere almeno 150 ettari e poi fai la fame se il compratore ti abbassa il prezzo di un paio di centesimi al chilo.
Per trasformare e vendere serve la mentalità imprenditoriale, una mentalità nuova in queste zone troppo legate al passato. È come nel vino, bisogna farsi conoscere all’estero, viaggiare, puntare tutto sulla qualità. Fare ricerca e fare promozione. Non è facile. Noi ci proviamo perché ci crediamo.

Grazie a Fabrizio Rizzotti per l’attenzione e il tempo dedicatoci, e grazie alla sua passione autentica per il riso.

Riso Rizzotti, di Fabrizio Rizzotti
28079 Vespolate (NO)
www.risorizzotti.com
info@risorizzotti.com
tel. 389 488 4108

Le foto sono di proprietà di Riso Rizzotti

 

 

Paolo Rossi

Paolo Rossi (p.rossi@acquabuona.it), versiliese, laureato in lettere, lavora a Milano nel campo editoriale. Nel vino e nel cibo ricerca il lato emozionale, libertario, creativo. Insegue costantemente la bottiglia perfetta, ben contento che la sua ricerca non sarà mai appagata.

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