Sulla strada del Moscato di Saracena. Seconda parte

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La cantina casalinga di Giuseppe Calabrese è giusto a poca distanza da quella dei Viola. Nato a Castrovillari nel 1981, scuola professionale agraria alle spalle, Giuseppe ha tutto del contadino: la solida struttura fisica, l’abbronzatura della campagna, la parlata laconica. Ha imparato a vinificare dalla nonna Peppina, la quale lo portava spesso con sé nella vigna che aveva impiantato negli anni Settanta dopo essere tornata dalla Germania. I vini di Giuseppe parlano la lingua della sostanza e della tradizione. Comincia a produrli nel 2007 e imbottiglia dal 2013, appoggiandosi a un piccolo bacino vitato di quattro ettari, di cui due occupati dalla vigna vecchia della nonna, coltivata soprattutto a magliocco.

La conduzione agronomica, improntata a principi naturali, impiega solo rame, zolfo e letame. Il Bianco Daipastini 2018 (Pastini è il nome della contrada), uvaggio di guarnaccia al 70% e malvasia bianca al 30% con 20 ore di macerazione sulle bucce, ha colore paglierino intenso, un naso dai profumi sottili, nemmeno troppo pronunciati per la tipologia, un palato denso e ricco, più esplicitamente macerativo senza però esagerazioni, senso “birroso” e muschiato, di buon sapore nonostante la consistente glicerina e i 15 gradi alcolici.

Il Rosato Daipastini 2018, magliocco in purezza con 8 ore di macerazione proveniente dalle vigne più giovani come già il Bianco, ha profumi piacevoli e bocca di spessore. Il Terre di Cosenza Pollino 2015 (qui annata piovosa, mi dice Giuseppe), ancora magliocco in purezza ma con le uve provenienti dalla vecchia vigna ad alberello della nonna, viene raccolto nella prima decade di ottobre e fa solo acciaio. Rubino fitto dal bordo granato, naso da fermentazione spontanea e dal carattere ruvido, bocca succosa, terrosa, liquiriziosa, naturale nello sviluppo, dal tannino vivo, maschio, con buona freschezza finale.

Il Terre di Cosenza Pollino 2013 ha tinta rubino fitto dalle intense sfumature granato. Sempre il lato terroso del magliocco in primo piano, il suo carattere pronunciato, rustico ma verace. Palato succoso, naturale, invitante, dal respiro terroso-balsamico, dal tannino imperioso, tutto fuorché docile o levigato, senza mezze misure, ferroso, massiccio, lungo, pronunciato.

Il vino più importante, o il più rappresentativo, della casa, manco a dirlo, è il Moscato di Saracena Peppina, che Giuseppe ha dedicato alla memoria della nonna. Il 2016 sfoggia un colore ambrato-arancio brillante, profumi di cera d’api, di arancio candito, poco esuberante come tutti i vini di Giuseppe. Analogamente il palato è denso, ricco, con miele e caramello al sale, datteri e albicocca disidratata, concentrazione e potenza, e un finale a base di zabaione e propoli. Il Moscato di Saracena Peppina 2015 ha colore arancio intenso e brillante. D’arancio è anche il naso, quello candito, e poi le ginestre in fiore, le note balsamiche, la caramella al miele. Il palato è denso, grasso, profondo, con senso di pasticceria (marzapane), dolce ma senza stucchevolezze, persistenza lenta e balsamica, di grande ricchezza: zabaione, arancio candito, propoli.

«Non si riesce ancora a capire da dove arriva la bollitura. Ho una mia idea a riguardo. Saracena era un paese di commercianti anziché di agricoltori, era una via di passaggio che portava a Scalea. C’erano probabilmente dei nobili che volevano fare un passito come quello siciliano. Ma non arrivando alle gradazioni della Sicilia per via del clima più freddo, comincia a prendere piede la pratica di far bollire il mosto per ottenere un vino simile», mi racconta mentre apre una bottiglia di vetro da un litro, chiusa da un tappo a corona, con la scritta Deutscher Brunnen (quelle bottiglie con il vuoto a rendere che contenevano le bibite frizzanti). È il Moscato prodotto dalla nonna negli anni Ottanta! La bottiglia è aperta da un mese e mezzo. Colore mogano scuro, sfumature quasi verdi. Mogano anche al naso, ma lucidato, ebanisteria, uva passa e candita, fichi, qualcosa che ricorda il Vin Santo, note balsamiche. Palato di gran densità, mosto cotto e caramello, noce a gogò, gheriglio supremo, tannino vivo, tratto viscoso, grasso, finale di zabaione.

Un’altra bottiglia, primi anni Ottanta. Colore marrone scuro. Naso di marca più ossidativa ma con gran ventaglio di sensazioni: caramello e croccante della fiera, noce e balsami, liquirizia e cioccolato. Più ti soffermi e più esce. Palato denso, viscoso, quasi da Pedro Ximénez, apologo del caramello e del mosto cotto («tempo addietro usavano anche mosto crudo del rosso dei vicini per far partire la fermentazione, soprattutto chi non aveva tutte le uve che servivano»). Invitante, incessante finale di noce e liquirizia.

Scendendo per via Vittorio Emanuele, che, a dispetto del nome (non è il celebre corso di Napoli né quello altrettanto famoso di Milano), è una viuzza diagonale del centro del paese, si arriva alla cantina Feudo dei Sanseverino. Mi accoglie Maurizio Bisconte, personaggio estroverso e passionale. Studi di economia a Bologna, attivo tra Milano, con cui ha ancora un rapporto stretto (anche di filiazione diretta: mi racconta di un Visconte di Milano che nel 1546 sposa a Saracena una signora di Pistoia, generando con alcuni passaggi di trascrizione semantica il cognome Bisconte), e Roma nell’ambito delle risorse umane e della comunicazione, Maurizio sente a un certo punto il richiamo della propria terra e torna a Saracena, documentandosi sulla cultura agricola del territorio con diverse ricerche storiche («Furono gli Enotri a creare le basi della nostra enologia. È nota la proverbiale opulenza e la raffinatezza culinaria della società sibarita: bevevano i vini delle loro colline poiché li ritenevano un ottimo antidoto contro il caldo eccessivo. Conferma Ateneo, nel suo Deipnosophistae, che il sibarita cominciava a bere prima del tramonto e finiva dopo il sorgere del sole. Mentre ad Atene i vini venivano tagliati con acqua di mare o altre essenze, essendo i vini calabresi abbastanza liquorosi e profumati, il procedimento prevedeva, in alcuni casi l’aggiunta di foglie di amarena, oppure di uva passa, anche al vin cotto, cioè ridotto per bollitura»).

Maurizio comincia a occuparsi di vino dal 1999, insieme al fratello Roberto, perito tecnico industriale, ex elettricista convertito alla causa dell’enologia e ora responsabile della produzione. La cantina è una specie di antro che contiene e raccoglie testimonianze di vita, ricordi di famiglia (il padre di Maurizio faceva il sarto, suonava il violino e aveva una passione per la fotografia), strumenti di lavoro: tante bottiglie, alcune botti, targhe e attestati, libri, strumenti musicali, fotografie d’epoca, manichini, vestiti e costumi, oggettistica di vario genere e foggia.

Mi parla della festa di San Leone, protettore di Saracena, che cade il 19 febbraio, dove il paese si accende di fuochi e dove si mangia e si beve per tutta la notte. Mi parla della lacrima nera, che non è una principessa inventata da Salgari ma una perla ampelografica del territorio («Resveratrolo al 95%», mi sussurra). Coltivata a regime biologico in un ettaro e mezzo di vigneto e raccolta a fine ottobre, confluisce nel Terre di Cosenza Pollino Rosso Riserva Lacrima Nera 2011, affinato per due anni in barrique usate. Ha colore fitto, naso olivoso-speziato, palato acido, teso, imprevedibilmente contrastato, con note di liquirizia e spezie, un tannino importante, e tanto mediterraneo nel profilo.

Il lacrima nera forma l’ossatura, insieme a un saldo di malvasia e guarnaccia, anche del Donna Marianna 2013 (il nome deriva da una zona montana vicino al paese). Le uve vengono vendemmiate, pressate insieme con macerazione sulle bucce e torchiate. La maturazione avviene in acciaio, l’affinamento in barrique per sei mesi/un anno e poi tanta bottiglia prima di uscire sul mercato. Colore granato leggero, sfumature rosate. Naso espressivo: sottobosco, rabarbaro, genziana. Palato succoso, morbido, ammandorlato, note di fermentazione spontanea, ancora il rabarbaro. Un vino artigianale, eccentrico, invitante.

Anche qui il grande cuore della produzione è nei passiti. Il Moscato Passito al Governo di Saracena 2011 possiede un colore arancio brillante, profuma di erbe officinali e aromatiche (rosmarino), melograno, rabarbaro e sfumature salmastre. Palato succoso, dolce/non dolce, con vividi input di scorza di albicocca.

Il Terre di Cosenza Pollino Moscato Passito Mastro Terenzio 2014 è un inno all’amore e al piacere: deve il proprio nome alla favola di un sarto che era talmente arrabbiato con la moglie da invocare il diavolo per risolvergli il problema. Il diavolo vuole però che il sarto firmi un contratto. Il sarto si pente di aver convocato il diavolo, vorrebbe tornare indietro e si ricorda di una leggenda che dice che se il diavolo beve del vino è costretto a volare via. Gli offre il suo passito. Il diavolo, che capisce l’intento del sarto, pensa di cavarsela limitandosi ad annusarlo. Ma il profumo è talmente inebriante da spingerlo a berlo. Il sarto festeggia la vittoria abbracciando la moglie.

Colore arancio intenso e brillante. Fragranze di albicocca secca, erbe aromatiche e note salmastre di tale pregnanza e intensità che sembra di essere a Pantelleria. Palato denso, grasso, contrastato, irresistibile. Gran finale di albicocca secca e rosmarino. Poi Maurizio appoggia sul tavolo una bottiglia senza etichetta. La apre e versa un contenuto ambrato-aranciato nel bicchiere. Gran naso: erbe officinali, menta, miele-melassa-melata, rosmarino, salvia, mirto, scorza di arancia, agrume candito, poi marzapane e rabarbaro. Bocca succosissima, dolce/non dolce, officinale, aromatica, fresca, invitante, inebriante, quasi un’ambrosia, roba da Magna Grecia, tanta lunghezza, la scorza d’arancia, il kumquat, il bergamotto. È un vino del 2008, ancora senza nome. «È un “Raspato di Saracena”. Il mosto viene leggermente scottato più che bollito, senza aggiunta di uva passa, perché questa era solo per i più ricchi. Questo vino era l’integratore e il sostegno per i contadini quando lavoravano in campagna, insieme a un pezzo di lardo di maiale. Me lo ricordo da bambino e da adulto persi la testa la prima volta che lo assaggiai, avevo trent’anni. Fermenta e matura in piccole botti da 150 litri».

Qualche metro più giù sulla via, dietro la porta di un’altra casa, si nasconde (qui non ci sono i classici cartelli indicatori né insegne aziendali) la cantina Maradei. È di proprietà di Vittoria Maradei, che ha ripreso negli anni Ottanta la passione della famiglia nel produrre il vino e l’olio dopo un periodo di latenza, coinvolgendo nell’avventura il marito Enzo Bavasso e le quattro figlie Gina, Marta, Maria e Olga.

Intraprendono la coltivazione biologica in campagna (tre ettari vitati sparsi tra Saracena, Firmo e Lungro), convertendosi nel 2014 al biodinamico con la decisiva collaborazione di Michele Lorenzetti. A guidare l’azienda è oggi soprattutto Gina Bavasso, nata nel 1985 a Cosenza, liceo scientifico a Castrovillari, studi di Scienze Politiche a Roma. È lei, a differenza delle sorelle più grandi (Marta e Maria, le quali hanno scelto altre carriere e lavorano tra Londra e Roma), che ha sentito la necessità di continuare l’opera di famiglia.

Comincia a produrre nel 2012, ma la prima bottiglia ufficiale, «dopo momenti di iniziale sconforto e la produzione di ottimi aceti di vino», è del 2015. L’Aglò 2016, uvaggio di guarnaccia e malvasia (rispettivamente 70% e 30%) vinificato in acciaio, ha colore giallo intenso nonostante l’assenza di macerazione e un senso di grano nell’aria. Più strutturato è il Danfora 2015 (guarnaccia 80%, malvasia 30%) con 24 ore di macerazione, fermentazione più maturazione in anfore di terracotta per sei mesi dopo la fermentazione. Colore dorato intenso dai riflessi oro zecchino. Profumi di buccia d’agrume e fiori secchi. Palato foderato da un tannino fitto e da un’alcolicità importante, tuttavia ben delineato.

Più espressivo e avvincente è il Dramis Bianco 2016, guarnaccia bianca in purezza da un vecchio vigneto centenario, vinificata in acciaio senza macerazione. Ha colore giallo paglierino intenso, sensazioni di fiori gialli (ginestra) e acacia, note balsamiche. Palato polposo, pieno, albicocca e agrume candito, buccia di bergamotto, con sviluppo di lunghezza e sapore; chiude in freschezza sulle note acide del pompelmo. Il Cumìss 2016 (la parola “cumìss” in arbëreshë significa “commercianti” ed è un omaggio ai prozii Vincenzo e Costantino Bavasso, che facevano questo mestiere) è un taglio di magliocco dolce (70%) e malvasia nera (30%) maturato in barrique usate. Ha toni terrosi, note di macchia mediterranea, frutti neri e sentori balsamici all’olfatto, mentre il polposo palato si apre sulla macchia mediterranea, sul tabacco ed è contornato da un tannino serrato e asciutto.

Il Dramis Rosso 2016, magliocco dolce in purezza da vigna centenaria, viene vinificato, come tutti gli altri vini, con fermentazioni spontanee senza controllo della temperatura. Colore porpora-granato, profondo naso mediterraneo, registro terroso, note balsamiche, sensazioni di carrube. Palato succoso e tenero, sorretto da un telaio tannico dalla maglia stretta, alcol integrato, buon equilibrio. Dramis era il cognome della bisnonna Olga. Il Moscato Passito 2016 sfodera un colore mogano fitto e vivo, un naso esuberante e balsamico di alchechengi, arancia sanguinella, scorza d’agrume, fresche note balsamiche. Palato denso, grasso, permeante, ben contrastato, acido, incisivo.

Sono stato a Saracena nei giorni del Saracena Wine Festival (25-28 aprile 2019), un’iniziativa locale dedicata al Moscato di Saracena, Presidio Slow Food, e agli altri vini del Pollino, che sta prendendo una fisionomia sempre più interessante e professionale. Tra degustazioni, banchi d’assaggio, convegni, seminari, concerti e cibi di strada in luoghi ricchi di fascino, c’è stata anche l’occasione di assaggiare altri Moscato del territorio.

Il Moscato Passito 2017 Franco Laurito si presenta con un colore arancio intenso e note olfattive di frutta candita. Palato sulla dolcezza con note di pasticceria, canditi e miele. Intenso tratto alcolico e discreto contrasto.

Il Moscato Passito Riserva 2017 Pandolfi ha colore aranciato-mogano. Olfatto screziato da note di soffitta e granai in stile Vin Santo, volatile vibrante. Palato di grande densità, decisamente viscoso, caramello e croccante della fiera, qualche segno di rusticità ma carattere da vendere, buon contrasto, allungo balsamico, fresco-acido.

Il Moscato Passito 2015 Diana possiede un aspetto aranciato intenso e velato, note di amaretto e sentori balsamici, e poi una bocca densa e alcolica, dall’anima di caramello e dai toni di frutta candita. Bella dolcezza e alcolicità, finale fresco.

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Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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