La bellezza e lo sfacelo. Riflessioni sulle Calabrie/2

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La costa crotonese è probabilmente l’apice del cimitero di opere pubbliche e private, ma non ne è indenne nemmeno la costa reggina. A Bianco, ad esempio, dove il mare si tinge d’azzurro e le spiagge hanno un colore chiaro, e dove si dice siano anticamente sbarcati i Greci, giusto nei pressi di Capo Bruzzano che oggi è meta turistica e parcheggio di auto arroventate dal sole d’estate, la cittadina moderna è figlia dell’opera di cementificazione successiva allo spostamento della popolazione dai paesi d’altura (dov’erano costruiti originariamente, in posizione sicura rispetto alle incursioni di predoni e pirati provenienti dal nord Africa e dal medio Oriente) ai paesi della marina (da cui il doppio nome di molti nuclei urbani).

Me lo racconta Mariolina Baccellieri, produttrice di vino, mentre guardiamo il mare e l’abitato dalla terrazza della sua bella casa, che ancora contiene una parte della vecchia cantina. È stato il padre Vincenzo a trasmetterle il «sentimento per il vino e per la sua terra». La portava con sé in campagna, le faceva ascoltare le fermentazioni nelle vecchie botti di legno («Senti il vino che bolle»). Mariolina è una signora gentile quanto combattiva: il suo sguardo è dolce ma fermo.

«Non ho fatto nessun business plan prima di cominciare, ho cominciato e basta, partendo dal Greco di Bianco e sentendomi dare della pazza. Non ho più venduto né uva né mosto e ho prodotto il mio vino. Ho fatto una scelta d’istinto, di passione. Sembrava una follia: non avevo conoscenze, ero zero su tutto. Mi sono detta: vendemmio l’uva, la metto al sole, pigio e poi faccio fermentare il vino nelle cisterne d’acciaio. Non avevo enologi, eravamo solo io e i contadini. Ho pensato: se va male, me lo berrò io. Per fortuna non è andata così».

Dai 15 ettari vitati di proprietà, più altri da vecchie colonie in gestione, Mariolina, oggi aiutata dalla figlia Beatrice con la consulenza dell’enologo Giuseppe Liotti, produce anche vini secchi. C’è il Dromos Bianco 2017, greco di Bianco con saldo di guardavalle, un altro vitigno autoctono della Locride, da uve vendemmiate precocemente verso la metà di agosto, che ha un profumo antico, rustico, un palato morbido-alcolico, dai toni di albicocca.

C’è il Siccagno 2018, greco di Bianco in purezza («Non era prassi usare le uve del Greco di Bianco per fare un vino secco») dai toni rustico-erbacei, con sentori sprezzanti d’agrume, palato succoso, morbido, mediterraneo, balsamico.

C’è il Violet 2017, l’ultimo nato della casa, un rosato da una vecchia vigna ad alberello di gaglioppo e nerello calabrese situata a Sant’Anna. Ha colore rosa intenso, profumi di agrume rosso, rabarbaro, tamarindo, arancia sanguinella. Ha succo, scorza d’arancia, un che di ammandorlato, lieve visciola, buon carattere.

C’è il Dromos Rosso 2017, uvaggio di nerello calabrese e gaglioppo prodotto per la prima volta nel 2014: ha colore granato, profilo terroso, evoluto, caldo, ricco, rustico-verace, alcolico, di pasta succosa e tannica.

C’è infine il Piroci 2016 (il nome significa “trottola” nel dialetto locale), nerello calabrese con passaggio in tonneau di rovere francese, che presenta analogo colore granato intenso con sfumature prugnose, e così (di terra e di prugna) sono anche i suoi profumi; il palato è ricco, solido, maturo, caldo, con tannino di rango e forza tannica. Ma il vino principale di questa azienda e di questa terra è fuori di dubbio il Greco di Bianco.

Il Greco di Bianco è un delizioso quanto raro e misconosciuto vino passito prodotto in un fazzoletto di terra (una cinquantina di ettari vitati) tra Bianco, comune eponimo, e Casignana, lungo la Riviera dei Gelsomini, in un angolo ameno della Calabria grecanica.

Se la leggenda lo vuole prodotto fin dall’arrivo dei coloni ellenici nel lontano VII secolo a.C. per opera di un contadino greco che aveva portato con sé alcuni tralci della vite della sua terra presso il promontorio di Zefirio, l’attuale Capo Bruzzano, le prime citazioni storiche arrivano invece nel XVII secolo con la Calabria Illustrata di padre Giovanni Fiore. Nel 1843 Giuseppe Raffaele Raso parla del vino Greco come «il più ricercato ed il più squisito della Provincia. Se provenisse dal Reno, dal Capo, da Madera, dal Tokai, da Lunelle, non basterebbe danaro a pagarlo» (Quadro statistico de’ Distretti di Palmi e Gerace nella prima Calabria Ultra). La produzione confidenziale e il decentramento geografico non aiutano la diffusione e la conoscenza di questa perla passita d’Italia e di Magna Grecia, unica Doc regionale dedicata a un vino dolce. Mariolina lo produce secondo tradizione, con appassimento all’aperto delle uve per una decina di giorni e maturazione del vino in tonneau di rovere francese.

Il Greco di Bianco 2013 ha colore ambrato intenso. Naso dai balenii canditi e salmastri: scorza d’arancia, pasta di mandorle, macchia mediterranea, sentori marini. Palato denso, “mobile”, contrastato, di dolcezza modulata e mai statica (la stucchevolezza qui non esiste), venature balsamiche, confettura, arancia su tutti, e poi tanto fico, tanta mandorla in pasta.

Il Greco di Bianco 2011 sfoggia un colore ambrato-rossastro, un profumo di erbe officinali, di genziana, di limonella, di elicriso, di macchia, poi un florilegio di agrumi canditi, un che di caramello e croccante, la noce. La bocca è setosa, fresca, balsamica, modulata, dolce/non dolce. Ancora la scorza d’arancia e le erbe aromatiche, nuance marine e mentolate, con sviluppo arioso e contrastato, fresco, lungo, continuo.

Il Greco di Bianco 2006, prima annata prodotta in una delle ultime mezze bottiglie bordolesi rimaste in cantina, ha colore ambrato-mogano-rossastro, con note olfattive di fico, di noce, di caramello, di albicocca secca. Palato mediterraneo, di confettura, di fico, di frutta candita, di uve al sole, di caramello balsamico, di foglia di castagno, di forza alcolica e freschezza salmastra.

In questo angolo di Locride non c’è Greco di Bianco senza Mantonico. L’omonimo vitigno, alter ego del greco, coltivato lungo pochi ettari, genera un passito pressoché invisibile quanto dotato di personalità, che radicalizza il portato salmastro, acido e dolce/non dolce del fratello maggiore. Il nome depone per la sua origine greca: proviene infatti dal greco mantonikos, da mantis-eos, indovino o profeta. Pare lo usassero nell’antica città magnogreca di Locri Epizephiri (i cui reperti sono visibili nell’area archeologica a sud di Locri) per favorire i riti divinatori.

Mariolina lo produce dal 2008. Il Mantonico Passito 2013 ha colore ambra scuro dai riflessi castagno-rossastri. Olfatto impregnato di fichi, datteri, uva passa, ebanisteria, mogano lucidato, fondo di caramello. Palato denso, grasso, tonico, contrastato, salmastro.

Il Mantonico Passito 2009 offre un colore ambrato-aranciato ricco di riflessi rossicci, nitidi profumi salmastri, insieme a toni candito-agrumati e sfumature balsamico-officinali. Palato morbido e contrastato, erbe aromatiche, ginepro, iodio, caramello salato, lungo e continuo.

Il Mantonico Passito 2008, prima annata prodotta, ha colore ambrato-mogano intenso e un’accensione olfattiva di fichi, iodio, nepitella, elicriso. Il palato è denso, fresco, dinamico, con input continui di macchia mediterranea, frutta candita, scorza d’arancia e un andante gustativo di temperata e invitante dolcezza a base di erbe aromatiche e officinali.

Santino Lucà, titolare delle Cantine Lucà, mi accompagna a scoprire gli antichi palmenti della zona. Ce ne sono addirittura 700 sparsi tra Ferruzzano (che da solo ne conta circa 160 meritandosi la nomea di “città dei Palmenti”) e i comuni limitrofi, che dalla fiumara di Bruzzano arrivano al torrente Bonamico di Bovalino: una concentrazione unica che dovrebbe essere oggetto di una tutela da parco archeologico del vino e che invece sono lasciati a se stessi, sperduti e nascosti nella vegetazione spontanea.

Il palmento è un’antica vasca di vinificazione scavata direttamente nella roccia e utilizzata in età ellenistica, romana e moderna fino alla metà del Novecento. Di diversa grandezza e forma (quadrata, rettangolare, perfino esagonale), è composto da due vasche in pietra sovrapposte collegate da uno o più fori. Alcuni hanno impresse delle croci, di tipo bizantino e latino, che ne permettono la datazione.

Dopo un giro nella campagna di Ferruzzano, tra alberi d’ulivo e profumi di nepitella, che si pensa fosse un tempo tutta vitata («Qui il terreno è più roccioso rispetto a Bianco, dov’è più argilloso. Il nome Bianco deriva proprio dal colore delle argille calcaree»), Santino mi porta sul promontorio di Capo Bruzzano, mostrandomi dall’alto alcune persone che fanno il bagno sulla riva. Mi fa notare la stranezza di quelle che sembrano due ampie vasche rettangolari ricoperte dall’acqua del mare. Non sembrano, sono due vasche rettangolari, sommerse dal mare. Secondo recenti ricostruzioni – mi racconta sempre Santino – sarebbero state due enormi palmenti da vinificazione per il vino da imbarcare oltremare, un grande centro di raccolta delle uve dei contadini della zona, che venivano qui per il conferimento, assecondando quello che poteva essere una specie di monopolio locale.

Ho visto una struttura a palmento nella cantina del già citato castello di Santa Severina, anche se i custodi mi hanno detto che probabilmente era un antico frantoio per la molitura delle olive: la parola “palmento” viene infatti usata anche per indicare la macina di un mulino ad acqua, atta a frangere le olive o frantumare il grano per ottenere la farina.

Per inciso: Santa Severina è un luogo dove andare per la magnificenza di un borgo costruito su un’altura, per il giro delle mura, lungo baluardi e bastioni, per gli ampi spazi interni con i saloni di rappresentanza al piano nobile del mastio (stanza della volta a stucco, stanza della cortesia, stanza delle arti, salone del Giordano, stanza del terrazzo bizantino, salone dell’incannicciata), per la bellezza del nucleo storico del paese, con la chiesa tardobizantina di Santa Filomena, la facciata seicentesca della Cattedrale, l’annesso Battistero del VII-VII secolo, mentre dell’antico quartiere bizantino chiamato Grecìa non rimane quasi nulla, solo le case moderne che non gli rendono il giusto onore storico.

chiesa di Santa Filomena

Santino appartiene alla terza generazione di una famiglia di viticoltori, la prima a imbottigliare. Nel 1996 esce il suo primo Greco di Bianco, destinato a rimanere un punto di riferimento per il vino passito del territorio e della regione. Imbottigliato sia in mezze bottiglie bordolesi sia nella più tradizionale “anforetta” locale, che assomiglia alle bocksbeutel tedesche della Franconia, viene prodotto con appassimento delle uve all’aperto per una settimana, fermentazione in acciaio e successiva maturazione in botti di castagno per quindici mesi.

Il Greco di Bianco 2015 ha colore dorato intenso dalle lievi sfumature aranciate. Inebrianti profumi passiti, canditi, salmastri: un naso che quasi porta verso Pantelleria. Il calore del sole, l’appassimento naturale delle uve, la confettura di arance, le albicocche secche. Palato denso, flessuoso, con mandorla e canditi e toni salmastri a gogò, erbe aromatiche, note iodate. Profondo, continuo, verticale: il miele, la confettura, il mare in un assieme irresistibile, di lunghezza continua e incessante.

Il Greco di Bianco Passito 2013 sfoggia un colore ambrato intenso dalle sfumature aranciate, e d’arancia candita profuma anche il vino, con un susseguirsi di note salmastre. Palato denso, intenso, contrastato, alcolico-salato, ammandorlato, con forti venature di albicocca secca nella lunga persistenza finale.

Gemello produttivo (per vinificazione, maturazione e imbottigliamento) del Greco, il Mantonico Passito di Santino Lucà esplora il lato più secco e salmastro del vino dolce reggino-calabrese. Il 2014 ha colore dorato intenso, profumi di mandorla, arbusti, iodio. Il palato è pieno e tonico, vivamente contrastato, molto salmastro, di stile dolce/non dolce, con sviluppi ossidativi nobili, iodati, tonicità e asciuttezza che si mescolano nell’alveo dell’ammandorlato. Il 2012 è l’apologo dell’ossidazione nobile. Colore ambrato intenso, naso di mandorla sbucciata, brezza marina, torba, ostrica, sbrecciature empireumatiche. Palato di noce e di mare, con infiltrante tono iodato e salino, sviluppo gustativo secco, asciutto, intransigente, acqua di mare e alga, tensione estrema, integrale, con presa potente sul palato. L’assoluto del dolce/non dolce, etereo e impareggiabile.

Continua…….

Contributi fotografici dell’autore

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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