

La domanda epocale oggi è: esiste questo pluricitato cambiamento climatico, o è una teatralizzazione della realtà generata da gruppi di scienziati catastrofisti, media che cavalcano la moda del momento, masse di giovani che non trovano un pretesto migliore per colorarsi il viso e scendere in piazza? E soprattutto, in questa sede enofila: esiste un cambiamento climatico che modifica/modificherà le nostre abitudini di bevitori, via via arrivando forse all’impensabile, cioè alla sparizione della vite coltivata e quindi del vino?
Per Antonino Zichichi, per il mio salumiere e per un paio di pennivendoli reazionari, la risposta è no. Per alcuni milioni di persone, me compreso, la risposta è un sonoro e angosciato sì.
Ho chiesto recentemente a Lorella Antoniolo – titolare con il fratello Alberto di una delle più storiche e illustri case vinicole italiche, nonché attuale presidente del Consorzio Tutela Nebbioli Alto Piemonte – il suo autorevole parere sulla faccenda. Mi ha risposto che il cambiamento dalle sue parti c’è eccome, “soprattutto in aree più fredde come le Valli Ossolane”, che ha portato i vini ad avere in generale “meno acidità” e “tannini meno duri”; che ha modificato in modo significativo tempi e modi delle pratiche viticole tradizionali.
All’assaggio molti vini dell’Alto Piemonte risultano in effetti meno spigolosi, meno rigidi, più polposi nel frutto rispetto anche solo a una decina d’anni fa. Ciò ha portato sempre più interesse degli appassionati, e parallelamente – a un ritmo non incalzante come sull’Etna, ma pur tuttavia vistoso – a un significativo aumento delle nascite di nuove aziende. Certo, qui i costi di produzione non sono bassi, le lavorazioni possono essere e sono spesso impegnative, i ritorni economici quasi sempre contenuti. Ma è un fatto che il catalogo delle case vinicole sia oggi molto più nutrito che nel passato anche recente.
Nella ricognizione degustativa – successiva agli assaggi presso Taste Alto Piemonte – che ho compiuto da poco, ho provato vini nuovi e nuovissimi.
Ne segnalo qui oggi uno solo: non perché di qualità superiore (anche se si tratta di un ottimo rosso), ma perché indicativo di una linea stilistica che ha punti di forza e almeno un risvolto più controverso.
Premessa. Poco sopra ho citato l’Etna. Ricordo bene quando, nei primi anni Duemila, a poco a poco i vini del vulcano si sono imposti all’attenzione generale. I pochi rossi imbottigliati in precedenza non costituivano beninteso un insieme statisticamente indicativo, tale da poter individuare con sufficiente esattezza cosa fosse un rosso etneo “tradizionale”. C’erano i “monovitigno” di Benanti (meraviglioso il Serra della Contessa 1998), delle bottiglie classiche di Scammacca del Murgo, e poco altro. Quelle poche etichette qualche tratto comune però l’avevano: un colore non saturo, un frutto caldo ma non molle, e in particolare dei tannini severi, taglienti, difficili da “domare” al palato quando il vino era giovane. Occorreva attendere che il tempo in cantina ne attenuasse l’energia selvatica per apprezzarne la profondità e la complessità aromatica.
Poi ha preso piede un altro modello, in cui il frutto assumeva tonalità più surmature, i tannini risultavano precocemente morbidi e soprattutto si affacciava – quando non si imponeva – un timbro di legno nuovo e dolce che appariva incongruo rispetto alle prove locali del passato.
Bene, qualcosa di simile si può cogliere nel nuovo Boca 2015 delle Tenute Guardasole. È un rosso buonissimo, da subito avvolgente e ricco di souplesse, che uno strato aromatico di toni speziati comprime nella sua libera espressione olfattiva e gustativa. Per fortuna il vino ha dei fondamentali veri e non posticci: dolcezza di frutto non stucchevole, tannini di grana fine, una freschezza finale che sa svincolarsi dal timbro un po’ appiccicoso del legno. È quindi molto probabile che questo velo boisé si attenui e si integri nel prossimo futuro. Si tratta quindi di una bottiglia molto raccomandabile.
Però attenzione. Non è il caso di questa giovane azienda, ma il rischio che si snaturi il profilo classico dei vini nordpiemontesi in favore di una silhouette più facile e piacionica mi pare ci sia. Nelle parole di Lorella: “c’era già questo rischio anni fa, quando la richiesta del mercato era per vini tutta polpa e morbidezza. Uno stile nel quale i nostri vini di sicuro non si riconoscono. Io mi auguro davvero che i nostri produttori non si facciano sedurre da facili scorciatoie, perché snaturare i nostri vini procurerebbe forse un vantaggio nel breve periodo su alcuni mercati, ma un dannoso e non quantificabile effetto boomerang in seguito,”
Azienda nuova, botti nuove?
Lo dico perché mi è capitato di assaggiare le prime prove di altre aziende locali in cui il contenitore di affinamento marcava forte il profilo del vino. E le prove successive invece risultavano più equilibrate.
Che le cose nel nord piemonte comunque stiano andando meglio che in passato lo dicono anche i prezzi , in crescita, delle bottiglie.