

È facile dare risposte semplici a domande complesse: basta essere populisti/sovranisti/prendperilculisti. È difficile al contrario dare risposte complesse a domande complesse: da dove veniamo, qual è lo scopo dell’esistenza, come parcheggiare se si ha un appuntamento dalle parti di Campo de’ Fiori, piove e si deve per forza andare in macchina?
Oggi qui provo a dare una risposta complessa a una domanda complessa: perché i vini in anfora sono in media più buoni da bere? Una risposta populista semplificata sarebbe: perché sono di moda, quindi vendono, quindi conviene farli. Una risposta complessa più razionale dovrebbe prendere in considerazione molte discipline: enologia e chimica enologica, in primis; poi psicologia della percezione, sociologia, antropologia, storia delle tradizioni popolari, e via andare.
Io, per il ramo di follia che l’età sta facendo crescere in me in misura esponenziale, rispondo invece su un piano del tutto soggettivo, indimostrabile, poggiato sull’aria. Indimostrabile, e purtuttavia del tutto chiaro, netto, presente nelle mie percezioni. I vini fatti in anfora – non tutti sempre e comunque, certo: le zozzerie si trovano declinate in qualsiasi stile e pratica – sono più buoni da bere perché hanno una forte vibrazione interna. Una vibrazione gustativa, soprattutto gustativa, che li distingue alla cieca da un vino più spento, più nella norma.
Dice: vorrai banalmente dire che sono più acidi. No. Non si tratta di una maggiore freschezza, sebbene questa sia una caratteristica comune a molti “anforici”. Si tratta di una vera e propria vibrazione vitale. Troppo new age, troppo biodinamico/steinerian/svolazzante? Sia pure.
Storiella personale. Per alcuni decenni ho tenuto il mio gravicembalo accordato al “la corista” moderno di 440Hz. Una decina di giorni fa l’ho fatto “scendere” al “la 432”, una frequenza alla quale venivano intonati gli strumenti in diverse zone europee nei vari periodi storici (fino all’800 non esisteva un unico e generalizzato “la”, ogni area aveva una sua tradizione: a Venezia nel Cinquecento il la poteva essere altissimo, a 450Hz, in Francia a metà del 1600 poteva essere molto basso, sotto i 415; eccetera).
Ora, su questa frequenza di 432 Hertz esiste un’ampia letteratura esoterica, quasi tutta vera paccottiglia. Basta andare su google e digitare “la 432” per accorgersene. Ma esiste, eccome, un robusto nesso scientifico e dimostrabile: il do corrispondente a questa accordatura è un multiplo della frequenza stazionaria della Terra descritta dal fisico tedesco (dal fisico, non dal pranoterapeuta) Winfried Otto Schumann nel 1952. Perplessità? Si consulti la voce “risonanza Schumann” su Wikipedia.
Bene. Il mio cembalo per decenni ha suonato a 440. Negli ultimi giorni, però, risuona. Nel senso che il suo timbro è cambiato, divenendo più pieno, più profondo, più risuonante. Non sembra più quello che è in partenza, cioè una discreta copia artigianale di un cembalo della metà del Settecento. Sembra un ben più pregiato strumento d’epoca.
Cosa vuol dire tutto questo? Tutto e niente. Che le vibrazioni interne, anche in un vino, possono essere più intense e quindi più percettibili della media. Potrei portare decine di esempi enologici. Ne faccio uno solo: tre sere fa ho potuto degustare la nuova annata 2016 del rosso in anfora Boggina, di Luca Sanjust (Tenuta di Petrolo). Mi è parso un rosso magnifico, purissimo, di grande trasparenza espressiva. E molto risuonante, ricco di vibrazioni. Esattamente ciò che con il Gentili, il Pardini e altri colleghi avevamo percepito confrontando la sua prima annata, 2011, messa a fianco al Boggina 2011 maturato in botti di rovere: molto gustoso quest’ultimo, molto più buona e vibrante la versione in anfora.
Mica però devo convincere nessuno, eh. Mi basta esserne convinto io; insieme – per fortuna – a un numero crescente di amici e colleghi.