Capezzana-Cibreo: la Toscana e la toscanità

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Nell’aria oggi a fluttuare c’era la Storia. Lei a primeggiare.
L’ho percepita dappertutto: nei vini, nei racconti, nell’ambientazione, nei cibi. Il connubio Capezzana-Cibreo ha sortito un effetto intimamente esplosivo e al tempo stesso confortevole, traghettando l’esperienza sensoriale sulle rotte della toscanità la più profonda. Sì, questa giornata fiorentina ha grondato toscanità.

Poi, la compagnia di Beatrice e Benedetta Contini Bonacossi, anime-femmina della Tenuta di Capezzana, ha fatto il resto. Nel frattempo ho scoperto una sobrietà e una misura tutte nuove nelle ultime annate di Trefiano (2015) e Villa Capezzana (2016), Carmignano iconici di una saga familiare lunga ormai cent’anni.

I vini respirano con naturalezza, risentono delle relative vendemmie e di null’altro, la loro trama ha ritrovato il dettaglio e l’eleganza attese.

Il Vin Santo di Capezzana Riserva invece (2012) ha avuto l’ardire di sintetizzare ciò che sintetizzabile non è. Lui arriva più insù, più insù di ogni possibile parola, ed è ancora qui, che gira intorno, sebbene siano passati giorni dall’ultimo bicchiere. Non lo dimentichi.

Sul Cibreo poco da dire: una cornice dal fascino archetipico, esattamente a metà fra il calor buono di una trattoria e la compassata signorilità di un ristorante old fashioned. Lì contano le persone e contano i cibi, con la tradizione dei luoghi introiettata da un sentimento autentico e interpretata con autorevolezza in una proposta implacabilmente a fuoco, capace di spingere quando c’è da spingere, di sfumare quando è il caso.

Al Cibreo va di scena Firenze e la fiorentinità, con la sua cucina di matrice campagnola, i suoi gesti, i suoi riti, il suo teatro. Una fissità solenne e indimenticabile.

FERNANDO PARDINI

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