Da Cuzziol Grandi Vini: il bello della trasversalità/1

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Fare una degustazione presso gli importatori appaga la mia sete di trasversalità: essere su un tavolo davanti a una serie di bottiglie che provengono dai quattro cantoni del pianeta vino.

La Cuzziol Grandi Vini è ospitata in un ampio e polivalente spazio a Santa Lucia di Piave, un’ex fabbrica di ferri da stiro acquistata nel 2014 dopo lo “split” tra Cuzziol Spa, che vende bevande, e l’attuale società che si occupa esclusivamente della distribuzione di vini nazionali e internazionali da 14 regioni italiane, 9 francesi e altrettanti stati esteri (Austria, Germania, Portogallo, Slovenia, Spagna, Armenia, California, Argentina, Nuova Zelanda).

C’è una sala degustazione per ospiti, una per le cene dei gruppi, una sala gastronomia con cucina, una sala terroir con le mappe e i terreni delle principali denominazioni italiane e francesi, decine di locali climatizzati per lo stoccaggio, con codice ottico per ogni palette per la tracciabilità della filiera di ogni lotto. Alla formazione degli agenti è dedicato almeno un incontro al mese con investimenti importanti in termini finanziari.

Sono in compagnia di Luca Cuzziol, amministratore delegato della società, sua anima commerciale e comunicativa, nonché profondo conoscitore del mondo del vino. Nasce a Conegliano nel 1967, «una grande annata solo per Château d’Yquem e il Barolo», ricorda con una punta d’ironia. Dopo il liceo scientifico, vorrebbe fare giurisprudenza, ma si iscrive a economia aziendale senza finire gli studi universitari. Comincia a lavorare nel 1992, «l’anno di Mani Pulite», come venditore nell’azienda di famiglia. «Con mio fratello Giuseppe abbiamo cominciato a dare un impulso qualitativo. Nel 1994 ho aperto un’agenzia di rappresentanza, facendola crescere nel Triveneto. Nel 2001 la chiudiamo, investendo i profitti delle bevande e della birra in un’azienda a distribuzione nazionale. Nel 2005 entra Paolo Leone, che arriva da Masciarelli. Nel 2014 dividiamo l’azienda dalla casa madre. Cuzziol Grandi Vini è un’azienda moderna, giovane – l’età media è 32 anni, il capufficio ne ha 29 – che intrattiene rapporti umani con le persone, alla base di tutto, e che propone vini di qualità. Il distributore ha anche un ruolo etico: sostenere le vendite dei piccoli produttori contro la potenza dei grandi marchi e delle grandi aziende».

Di seguito la carrellata degli assaggi. Prima puntata dedicata ai bianchi, la seconda ai rossi e ai vini dolci/liquorosi.

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Riesling e dintorni

Johannes Zillinger, quarantenne, entra nell’azienda di famiglia all’inizio del nuovo millennio con scelte radicali. L’azienda, fondata nel lontano 1673, è a conduzione biologica dal 1984. La farfalla dell’etichetta è un simbolo importante: le farfalle sono tornate tra i vigneti dopo la conversione al biologico. Nella secolare cantina scavata sotto la collina di Kellerberg, Johannes fa affinare i suo bianchi in anfore e vecchie botti. I vini provengono dalla regione del Weinviertel, nell’ampia zona del Niederösterreich. «Con l’Austria ho deciso di lavorare in modo alternativo e mi sono affidato a Franz Hofstätter, che è un grande talent scout. Nel 2001 lavorava come sommelier in un ristorante stellato vicino alle Torri Gemelle: è scampato alla tragedia perché aveva dimenticato il maglione a casa», racconta Luca. «L’ho scelto per la sua mentalità. È la nostra visione del nostro vino naturale». Il Riesling Velue 2018, vino “base” chiuso con tappo a vite, ha colore paglierino intenso e definito, un naso di prima formazione minerale, un palato succoso e pietroso, ben delineato, giocato in sottrazione, ancora embrionale, di buona vibrazione acida, con note sassose in chiusura. Il Riesling Numen 2015, tappo in sughero, vinificato in anfora e affinato in legno di acacia, ha colore dorato brillante, profumi di miele, palato strutturato, alcolico, potente, dove il carattere più riconoscibile e verticale del vitigno tende un po’ a smarrirsi.

La cantina Emrich-Schönleber di Monzingen, nella Nahe, è stata fondata nel 1960, ma la tradizione viticola della famiglia risale almeno a due secoli prima. La famiglia Schönleber conduce venti ettari vitati, tre quarti dei quali piantati a riesling. «È tra i produttori di spicco della zona, ancora più radicati sul territorio rispetto a un Dönnhoff. Sia Werner, il padre, che Frank, il figlio, parlano poco l’inglese, solo tedesco. La vigna è gestita come un giardino, il lavoro è meticoloso. Ho scelto due vini. Entrambi del 2016». Il Riesling Lenz 2016 ha colore paglierino giovane e brillante. Profumi di agrume fresco, di minerali e pietrischi, di zucchero filato: bel respiro aromatico-varietale. Palato succoso e tonico, di bella lama minerale ed elegante zucchero, sale e acidità a braccetto, grande equilibrio, buccia fresca di lime, con vibrazione minerale in chiusura. Il Riesling Halenberg Spätlese Grosse Lage 2016 ha colore paglierino brillante, un olfatto in fascinosa riduzione minerale (pietra focaia, erba tagliata). Palato analogamente asciutto, teso, embrionale, sprezzature acide e vibrazione minerale, laminato, tagliente, con verve limonosa nel finale. Da conservare in cantina.

«La vendita del vino tedesco è anomala rispetto a quello italiano o francese. Il 60%-70% viene venduto in Germania ai privati. Quello che rimane alla ristorazione tedesca e, in misura minore, fuori dal paese», continua Luca. «Sono arrivato al Riesling per caso. È il 2006, l’anno del Mondiale azzurro, e sono da Dominique Lafon. Arrivo con una cassa di Prosecco, lui mi fa prelevare una caraffa di vino bianco direttamente dalla vasca, scoprendo poi che era il suo Montrachet 2000… Per terra c’era un cartone di Riesling. “Questo è il futuro del vino”, mi dice: è bianco, ha poca gradazione alcolica e con il cambiamento climatico sarà sempre più difficile anche qui da noi fare vini freschi. Apre una bottiglia di Schieferterrassen di Heymann-Löwenstein. Il giorno dopo sono da Jean-Michel Deiss. Apre un’altra bottiglia di Heymann-Löwenstein. Evidentemente era destino. Così è cominciata l’avventura con Reinhard Löwenstein. Oggi siamo il suo più importante mercato estero». Nel tempo questo produttore della Mosella è diventato un piccolo oggetto di culto. Non sempre però i suoi Riesling mi entusiasmano. Il Riesling Schieferterrassen 2017 ha naso in riduzione minerale e un palato succoso, aspro, introverso, con note di pietra focaia ed erbe tagliate, marcatori delle vertiginose terrazze vitate su suoli d’ardesia che caratterizzano le vigne di questo produttore e della sua denominazione. «Usa tappi di sughero con chiusura a ceralacca nera, che tuttora vogliamo al posto del tappo a vite. Reinhard è un rivoluzionario, ha deciso di vinificare i Riesling della Mosella in modo diverso, con meno zucchero e più alcol. Il suo stile non è comparabile a quello degli altri. Un po’ come Marco Parusso in Langa, che vinifica a graspo intero».

Il Riesling Röttgen Grosse Lage 2014 ha colore paglierino intenso e vivo. Olfatto di pietra bagnata, di pietra focaia, di riduzione minerale. Palato succoso, ferroso, salato, grande polpa e grande energia, taglio minerale trasversale, vibrazione sapida, acido e tenace, sprigiona sale e pietra, profondo e persistente, con allungo asciutto, quasi salato. «Il terreno dove nasce questo vino ha macchie di ferro, è il suo bianco più tannico, lo abbiniamo al carré d’agnello».

Ancora più rivoluzionario è stato Jean-Michel Deiss, nipote del fondatore Marcel Deiss, che nel secondo dopoguerra ha fondato la cantina che tuttora ne porta il nome. La sede è a Bergheim, a nord di Colmar, gli ettari vitati 27 sparsi in 9 comuni. «Jean-Michel è l’uomo della “complantation”, il “domaine de la rêverie”, del sogno. C’è anche il nostro zampino in questo progetto: anni fa parlavamo di come aumentare il percepito alsaziano, gli ho consigliato di fare meno vini». La “complantation” prevede la vendemmia congiunta e la conseguente vinificazione delle diverse varietà comprese in un singolo vigneto, in modo che ognuna bilanci, “compensi” l’altra, esprimendo l’essenza di un terroir. La conduzione è rigorosamente biologica. «Jean-Michel venne denunciato per avere vinificato tutto il vigneto nello stesso giorno, poi è diventato presidente dell’AOC alsaziana. Un uomo di grande coerenza».

L’Engelgarten Cru d’Alsace 2016, da uve riesling, tre pinot (gris, beurot, noir) e muscat da  terreni magri e ghiaiosi ha colore paglierino intenso, un naso tardivo, aromatico, e un palato succoso, contrastato, tardivo-aromatico, floreale, tonico, molto asciutto. «Un’uva parla con l’altra e insieme si armonizzano. Per noi questo vino rappresenta il primo livello della “complantation”, e come tale va spiegato. Siamo il primo mercato estero per Deiss con 10.000 bottiglie all’anno». Lo Schoenenburg Grand Cru 2013 (antico “lieu-dit” solatio di Riquewihr, terreni calcarei, microclima favorevole per lo sviluppo della muffa nobile, predominanza di riesling da vecchie vigne) ha colore paglierino dorato, grande lignaggio aromatico, e un palato succoso e sciolto, dal frutto maturo e tardivo, l’eleganza di essere bilanciato e bevibile nonostante il residuo zucchero: mantiene il sale accanto allo zucchero, ha sapore e allungo, sviluppo notevole, davvero di classe. Luminoso, magicamente equilibrato, seducente, di bella purezza. C’è prima il terroir del vitigno.

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Deux Chenins Blancs de l’Anjou

Il Domaine de Saint-Just è stato fondato da Yves Lambert, già quarantasettenne, nel 1996, come un ritorno alle origini nelle sue Terres de Saumur. Siamo a Saint-Cyr-en-Bourg e Yves vuole produrre vini di terroir con le uve principi del territorio: chenin blanc e cabernet franc. Nel 2005 il figlio Arnauld ne prosegue l’opera, cominciando quattro anni dopo a riconvertire i vigneti al biologico e unendo sotto un’unica insegna, quella di Arnauld Lambert, i vigneti del Domaine de Saint-Just sur Dive con quelli dello Château de Brézé.

Il Saumur Blanc Brezé Clos De Midi 2018 è brillante nel colore, ha un olfatto limpido ancora in via di sviluppo, e un palato maturo, polposo, alcolico, ma anche tonico, sapido. Poco lineare, dunque fascinoso, dal finale spiccato di sottobosco (terriccio, tartufo). «È stata una delle scoperte migliori sul piano dell’appeal commerciale. Arnauld è giovane, bio ma non estremo, ha delle vigne bellissime comprate ancora dal padre quando i prezzi erano abbordabili, con suddivisione del terroir alla borgognotta. Oggi è più facile proporre un produttore per il suo terroir che per la sua notorietà».

A Bellevigne-en-Layon, la collina di Juchepie rappresenta il cuore del Coteaux-du-Layon, zona vocata per la produzione degli omonimi vini dolci a base di chenin blanc, capostipiti della tipologia in Loira e tra i più originali di Francia. Convinti che il loro terroir potesse esprimersi anche con bianchi secchi, Eddy e Mileine Oosterlinck-Bracke hanno intrapreso questo nuovo corso con il loro Domaine de Juchepie, fondato nel 1986. «Ho assaggiato i loro vini per la prima volta a Vinexpo 2013, o per meglio dire nel salone off di Vinexpo, La Renaissance du Terroir, ospitato in una vecchia fabbrica. Due coniugi belgi che si erano innamorati della Loira, una storia romantica. Facevano come tutti dei vini moelleux serviti in grandi ampolle che mi piacevano poco. Li ho ritrovati nel 2015 che producevano un bianco secco e poi nel 2017 i loro vini erano tutti secchi: ho pensato che si poteva cominciare a venderli. Sono “vin de garage”, vini di pancia, vini fuori dalle mode, che non vogliono stare a tutti i costi in un catalogo vendite. Sono produttori puri ma non estremi, interpreti naturali non alternativi, gente che deve per forza stupire: questo è molto interessante dal mio punto di vista, perché oggi in molti tendono a sfruttare un canale commerciale per poi sbroccare. Vini difficili da vendere, ma ne vale la pena». Le Jarre de Juchepie Sec 2015, proveniente da terreni scistosi, con vigne orientate a mezzogiorno e un solo passaggio di vendemmia (21 settembre), è un’interpretazione radicale, uno chenin blanc più selvaggio dove si respira quasi l’aria della Jura, con i suoi sentori di mandorla sbucciata, di noce, di iodio, di arbusti. Palato succoso e contrastato, molto contrastato, asciutto e salino, note di noci, mandorle tostate, terra bianca. Grande rigore, grande sapore, grande allungo.

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Due tappe in Borgogna

Il Domaine Coffinet-Duvernay nasce nel 1989 dall’unione, personale e professionale, tra Laura Coffinet, erede del secolare Domaine Coffinet, e Philippe Duvernay. «Sono una coppia dinamica, con i piedi ben piantati nella tradizione senza però essere dei “vieux bourguignons”. Lavorano tutti i terroir del comune di Chassagne: per noi è un valore quasi didattico. Oltre ai vini classici del territorio, c’è un raro Clos St-Jean bianco, c’è Les Blanchots Dessus, che è un premier cru, e Les Blanchots Dessous, che invece non lo è.  Hanno una mano leggera sul legno, lasciano parlare il terroir. Sono convinto che questo domaine possa crescere molto in Borgogna in termini di notorietà». Lo Chassagne-Montrachet Les Blanchots-Dessus 2017 è brillante nel colore, nell’elegante fumé di un naso filigranato, trasparente, tutto sussurrato, nel palato floreale, succoso-minerale, sottilmente speziato, elegante, asciutto, sapido. La classe del legno e di un terroir. «È una delle aziende che ho trovato più interessanti dal punto di vista commerciale in una zona, come Chablis, dove ci sono tre grandi produttori, anche se qualcuno dice cinque. Alain Geoffroy è da sempre sindaco di Beines, un paesino a due chilometri da Chablis. Ha una cinquantina di ettari di proprietà e dentro ho trovato dei vini che avevano qualcosa da dire. Uno stile classico, tradizionale, senza esser vecchio. In Italia vogliono uno Chablis tagliente, teso, e i vini della famiglia Geoffroy sono perfetti a riguardo. Accanto a Le Clos, amo molto il Beauroy, un premier cru meno conosciuto». Lo Chablis Grand Cru Le Clos 2017 ha colore paglierino intenso e luminoso, un naso screziato di pietre e agrumi, quasi spogliato, essenziale al confronto con il precedente Chassagne-Montrachet. Palato succoso e limonoso, ecco lo Chablis, la sua asciuttezza, la sua tonicità, la sua scorzetta d’agrume fresco, la penetrazione acido-minerale, il tambureggiante allungo: la pietra e il sale, i fiori e i limoni, il calcare e i sassi.

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Francia del sud e del sud-ovest

«Domaine de la Rectorie è entrata nel nostro listino tredici, quattordici, forse quindici anni fa. Una sera a cena Jean-Michel Deiss mi aveva parlato di Marc Parcé e del suo ottimo Banyuls. Fisso un appuntamento per vederci. Mi viene a prendere all’aeroporto un piemontese, Silvio Marocchino, cugino del calciatore di serie A, fidanzato con l’enologa del Domaine de la Préceptorie, zona del Maury, che era gestita sempre dalla famiglia Parcé. Alle sette di sera conosco Marc Parcé, figlio di un generale dell’armata, che a vent’anni da Parigi va dalla nonna Thérèse a Banyuls-sur-Mer con look da fricchettone stile Jim Morrison in piena epoca di contestazione e figli dei fiori. Mi accoglie a casa sua come un conoscente, non dico un amico, assaggiamo decine e decine di vini, ho dormito nella camera dei figli. Al mattino conto nel bagno sette spazzolini. Uno per ogni figlio, mi dice. Vedo Madonne e Santi riprodotti dappertutto. Ha due fratelli più grandi: uno fa il fotografo, l’altro, pianista, è Thierry, che oggi conduce l’azienda. Producono vini che sanno di mare, ad alta gradazione, difficilissimi da vendere, perché la grenache gris è poco conosciuta. Mi dicono che l’elevata umidità impedisce una conduzione realmente bio dell’azienda». Che altro aggiungere? Il Collioure Blanc L’Argile 2016 è un vino potente: nel colore paglierino intenso, nelle note quasi tardive ai profumi, nella ricchezza materica e nell’alcolicità del palato. Ma è anche un vino vibrante, elegantemente speziato, con i sapori forti della sua terra.

Nelle terre dei grandi vini dolci francesi si producono anche affascinanti bianchi secchi. Succede nel bordolese, succede in Loira, succede nel sud e anche nel sud-ovest. A Jurançon, ad esempio, zona di uno dei più squisiti moelleux nazionali. Sulle colline di Monein, tra Biarritz e Lourdes, Henri Ramonteu è uno dei principali interpreti del petit manseng.  Lo Jurancon La Canopeé 2014 Cauhapé, da uve raccolte a metà novembre, esibisce un colore giallo dorato brillante e un cespuglio di fiori al naso, tra menta, petali assortiti, ginestre e acacie, comprensive del loro miele. Palato pieno, maturo, ricco, tardivo, lungo, complesso, davvero persistente: buccia d’agrume, zafferano, arbusti, argille e terricci, note quasi empireumatiche. «È un vino di spessore. Sono stato un paio di volte da Henri. È arrivato al vino dalla proprietà terriera. Ha sempre fatto il moelleux comprendendo che il futuro andava in un’altra direzione, e oggi produce dei grandi bianchi paragonabili a quelli della Loira e dell’Alsazia».

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Due bianchi fuori dal coro

Parlerò di Karl Fritsch nella prossima puntata. A questo giro mi limiterò a riportare gli elementi fondamentali del Materia Prima 2017, un particolarissimo e ambizioso vino che è difficile definire solamente bianco, non fosse altro per il suo colore che vira decisamente all’arancio intenso. Proviene da un uvaggio alla pari di traminer e grüner veltliner, da vigne di 35 anni che giacciono su terreni calcarei derivanti dai depositi glaciali di löss, ovvero: «Nome tedesco dato a depositi eolici di colore giallo chiaro e costituiti essenzialmente da granuli di quarzo finissimi e per lo più arrotondati con carbonato di calcio, idrossidi di ferro e poca argilla, poroso se non rimaneggiato dall’acqua» (Enciclopedia Treccani). Fermentazione spontanea in botti di rovere usate da 500 litri con macerazione per due settimane. Successivo affinamento in botti da 700 litri per dodici mesi e in vasche ovoidali di cemento. Chiuso in una speciale bottiglia nero-opaca di ceramica con tappo in sughero naturale. Profuma di albicocca, tè, fiori secchi, frutti rossi. Ha un palato strutturato, ferroso, tannico senza eccessi, e un carattere roccioso, indomito: l’ho assaggiato e riassaggiato lungo più di due mesi, fuori dal frigo, dentro nel frigo. Non si è smosso di un’unghia. Siamo nel Wagram, zona a est della Wachau, considerata il “Piemonte dell’Austria”.

Infine c’è un bianco unico, da ogni punto di vista: storico, territoriale, stilistico. È il Coteaux Champenois Le Mesnil 2015 di Bruno e Alice Paillard. Ovvero il bianco della Champagne prima dello Champagne. Raro, poco conosciuto, inimitabile. Il riassunto della retro etichetta non potrebbe essere più puntuale: «Sa minéralité, sa finesse naturelle et sa vinification en petites barriques de chêne en font un vin atypique ressemblant à ceux que produisait la Champagne autrefois, avant que Louis XV n’y autorise la vinification en bouteilles qui a donné naissance au champagne». Volete sentire la marna, il gesso, il calcare in un bianco? Ecco qui. Un vino rarefatto, verticale, a trazione integrale, profumato di terroir, tremendamente saporito, teso, incisivo, asciutto, concreto, lunghissimo. Chardonnay in purezza dal celeberrimo cru di Mesnil-sur-Oger, 550 bottiglie prodotte: quasi inesistente, e dunque ancora più prezioso.

Continua…..

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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