La valorizzazione del concetto di cru in Italia

0
11295

Nei due miei precedenti articoli (LEGGI QUI e QUI ) ho sviluppato alcune considerazioni in merito alla definizione (e applicazione) del concetto di cru, prima in Francia, poi in Piemonte, ovvero la regione italiana più legata a un’idea francese di viticoltura (scusa, Val d’Aosta!). Ma vale la pena di far lo stesso anche per altri comprensori, e di tirare qualche considerazione conclusiva. Bene, se Atene piange Sparta non ride: vediamo cosa accade in Toscana.

A Montalcino la situazione delle vendite è così positiva che nessuna pensa a svegliare il can che dorme. Ma più di un produttore sfrutta le peculiarità dei versanti della collina ilcinese per assemblaggi di partite di uva di provenienza diversa ai fini di un superiore equilibrio, o si diletta nella elaborazione di Brunello “di vigna” adeguatamente caratterizzati (tendenza in aumento). Un progetto di zonazione è stato portato avanti per iniziativa privata, il Consorzio di Tutela si è mostrato interessato, ma pare in altre faccende (di mercato) affaccendato. E c’è chi rivendica l’inutilità di porsi il problema, nel senso di una qualità finale del vino esclusivamente legata alla “mano” del vignaiolo e dell’enologo. Certo c’entra, ma…

Dio solo sa quanto il Chianti Classico avrebbe bisogno di caratterizzarsi e di distinguersi dal cugino Chianti (vedi le recenti, incresciose vicende di potenziale sovrapposizione fra tipologie). Intorno all’anno Duemila stava per andare in porto un progetto di denominazione comunale, poi naufragato per beghe di campanile molto toscane nell’assunto e nello stile (immaginate un “Io sono di Panzano e con quelli di Greve non ci starò mai”! N.B.: chi vi scrive non si riferisce a nessun produttore in particolare!). Se ne parla nuovamente da anni, ed è praticamente riproposto dal Consorzio a fronte di una zonazione attualmente in corso (si immagina dirimente i confini in termini pedoclimatici).

Può effettivamente essere un primo passo verso una maggiore personalizzazione di vini che da quel punto di vista hanno molto da raccontare. L’apparente complicazione del possibile taglio internazionale del sangiovese nell’assemblaggio, per come concesso dal disciplinare, è un falso problema, in quanto basterebbe riservare suddetta denominazione comunale ai Chianti Classico “in purezza”, o almeno ai soli Chianti Classico ricavati da uvaggi autoctoni.

E’ quanto non si è osato per la Gran Selezione, e le conseguenze adesso si vedono: se i produttori riservano le loro uve migliori a questa tipologia è ovvio che referenze di pregio ve ne siano a profusione. Peraltro, ciò che la G.S. impone di diverso in termini di regolamentazione è un maggior estratto secco, una gradazione alcolica minima superiore, un affinamento più prolungato (oltre all’obbligo di lavorare uve di proprietà). Quindi molte aziende l’hanno interpretata come un vino più “grosso”, anche se potenzialmente più prestigioso, e come tale il mercato italiano persiste nel percepirlo e recepirlo (cioè male).

A Bolgheri il locale Consorzio ha a disposizione una zonazione circostanziata (d’altra parte la denominazione non è grande, ma è quanto mai variegata a livello di composizione dei suoli), che da tempo se non altro consigliava le aziende dove piantare cosa. Trattasi di scelte non banali che iniziano ad emergere adesso nell’ambito di un nuovo corso del vino bolgherese, meno orientato allo sfoggio di muscoli fine a se stesso a favore di una superiore eleganza (nell’opulenza del frutto) che dovrebbe essere il fil rouge dei migliori prodotti del territorio. In un ambito di mercato in cui andare a cercare il pelo nell’uovo non pare necessario ma può pagare (tutti sognano di fare un secondo Masseto), il futuro appare abbastanza roseo.

In breve, qualche altra notazione di un’analisi che ovviamente non pretende di essere esaustiva.

Non mi dispiace il modo in cui il Consorzio del Soave ha da lungo tempo portato avanti la certosina e accurata definizione dei suoi cru (oltre a tutta un’altra serie di progetti, in una visione integrata e CONDIVISA degna di lode). Qui l’assunto era smarcare la zona classica dal vino di massa, ovvero il Soave DOC: missione riuscita con vini di vigna (o se preferite di menzione) ricchi di sfumature e di carattere, da cui ne è disceso l’effetto positivo di fungere effettivamente da traino per il resto della produzione.

Torno subito sulla terra con due esempi riguardanti l’uso improprio delle varietà autoctone. Il terroir anche del vitigno infatti si compone, e la ricchezza della penisola in tal senso, per quanto difficile da comunicare, è un asset formidabile per le aziende al fine di fornire ai propri clienti qualcosa di “non copiabile”. Però in Campania sono stati iscritti come “Falanghina” due vitigni dei Campi Flegrei che niente hanno in comune, complicando la possibilità di caratterizzare prodotti che hanno una loro personalità specifica.

La Sardegna, altresì, “soffre” della presenza di denominazioni regionali varietali, peraltro smentite dalla realtà dei fatti, nel senso dell’evidente differenziazione dell’espressione dei diversi vitigni autoctoni (Vermentino e Cannonau ma non solo) nei distinti areali, sempre più esaltata da produttori seri e consapevoli; qui sciaguratamente si assiste al progetto di concedere la possibilità di indicare la varietà utilizzata anche sull’etichetta dei vini a IGP. Ovvero potrebbe capitare di veder scritto ad es. “Vermentino” quel che sia il livello qualitativo della denominazione, con evidente confusione per il consumatore medio che non fa caso a queste speciosità normative, e quindi potenzialmente potrebbe scegliere etichette di qualità corrente e più economiche semplicemente per l’evidenza dell’indicazione del vitigno. Un apporto di confusione disastroso, e una sorta di abbassamento verso il basso dell’asticella della qualità, ovvero esattamente il contrario di quanto un disciplinare dovrebbe promuovere.

Perché alla fine della fiera il punto è questo: valorizzare un terroir vuol dire esibire un carattere che è DIVERSO, e quindi MEGLIO O PEGGIO DI ALTRI. Da qui non si scappa. L’unicità dei propri prodotti è un obiettivo che le aziende vinicole italiane perseguono per sopravvivere in un mercato globale ove la loro ridotta dimensione non consente economie di scala, e mantiene inevitabilmente alti (rispetto ad altri paesi) il prezzo dei vini. Ma abbiamo dovizia di unicità (non è un’antitesi!), vitigni, sensibilità interpretativa, competenze, storia per regalare ai veri appassionati qualcosa di più e di diverso. E non bisogna vergognarsene.

Riccardo Margheri

Sono oramai una ventina d’anni che sto con il bicchiere in mano, per i motivi più disparati, tra i quali per fortuna non manca mai il piacere personale. Ogni calice mi pone una domanda, e anche se non riesco a rispondere di certo imparo qualcosa. Così quel calice cerco di raccontarlo, insegnando ai corsi sommelier Fisar, conducendo escursioni enoturistiche, nelle master class che ho l’onore di tenere per il Consorzio del Chianti Classico; per tacere delle mie riflessioni assai logorroiche che infestano le pagine web e cartacee, come quelle della Guida Vini Buoni d’Italia per la quale sono co-responsabile per la Toscana. Amo il Sangiovese, Il Riesling della Mosella, il Porto, ma non perdo mai occasione per accostarmi a tutto ciò che viene dall’altrove enoico. Vivo da solo e a casa non bevo vino, poiché per me il vino è condivisione: per fortuna mangio spesso fuori, in compagnia.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here