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La degustazione alla cieca: pregi ovvi e rischi non calcolati

Da alcuni decenni insisto a proporre un parallelismo: alla degustazione comparata dei vini si può adattare l’aforisma di Churchill sulla democrazia, “che è la peggior forma di governo, ad eccezione di tutte le altre sperimentate finora”.
Una commissione d’assaggio – che sia per una guida, per l’attribuzione di una denominazione d’origine, per un concorso, e varianti annesse – si trova a dover giudicare decine se non centinaia di bottiglie diverse. Che fa? Prevede un lavoro di due anni e mezzo dedicando a ogni singolo vino una sessione a parte? oppure è costretta a degustarne diverse insieme?
La risposta è ovvia.

Da questa necessità stringente deriva il sacro dogma, codificato fin dagli antichi testi ayurvedici Caraka Samhita e Sushruta Samhita, della degustazione previo mascheramento delle etichette (ovvero, con una brutta parola, previa “anonimizzazione”) : la celebrata degustazione alla cieca. La degustazione alla cieca assomma tali e tante virtù da risultare un principio incontestabile:

– è democratica, mettendo il marchio blasonato accanto al più umile vino contadino, la bottiglia costosissima e introvabile accanto alla bottiglia da pochi euro, il nome che incute timore accanto al nome sconosciuto;

mette in rilievo la qualità “vera”, “reale”, denunciando i falsi miti e svelando le qualità nascoste o non sufficientemente valorizzate;

permette una valutazione davvero libera da tutti i possibili condizionamenti e pregiudizi

Ottimo. Senonché ogni sistema di valutazione critica, per quanto perfetto sulla carta, è soggetto a sua volta a una valutazione critica. E per quanto suoni blasfemo, anche la degustazione alla cieca ha i suoi limiti.
Di più: in alcune particolari circostanze contribuisce a disturbare la valutazione critica, anziché a renderla più limpida.  Uhmmm… possibile? Suona forzato… Vediamo.

Per cominciare spostiamo l’attenzione sulla preparazione del degustatore e soprattutto sulla sua indipendenza di giudizio. Un buon assaggiatore non si fa condizionare dalla fama di un produttore né dal costo di una bottiglia. Anni fa in un post di tema analogo chiesi il parere dell’amico e collega Armando Castagno, sull’acume e sulla serietà del quale nessuno credo possa dubitare:

Assaggio spesso a bottiglia scoperta perché non voglio essere condizionato dall’assaggio alla cieca“. Paradossale? Per niente. “Un critico che può essere influenzato da un’etichetta per me non è un buon critico. Mereghetti che fa? Vede un film senza sapere chi è il regista, perché se è di Kurosawa rischia di sopravvalutarlo? Ma andiamo. Se il film è brutto, è brutto, fine“.
In più, taluni vini sono del tutto inadatti all’assaggio a bottiglia resa anonima. “Per esempio il Brunello di Biondi Santi“, rimarca Armando, “che alla cieca con altri dello stesso versante di Montalcino risulta invariabilmente più ‘silenzioso’, nascosto, sfuggente“.

Quindi un buon assaggiatore deve essere capace di restare obiettivo – né più condiscendente, né più severo – davanti a qualsiasi bottiglia. In questo senso la degustazione alla cieca è superflua.

Spostiamo poi l’attenzione sulle premesse organizzative, cioè su quali informazioni sono messe a disposizione dei degustatori prima dell’assaggio.
C’è un altro caso in cui nascondere le etichette non serve a molto, e anzi crea una piccola perturbazione. Ed è quando il panel di assaggio sa di apprestarsi a degustare un gruppo ristretto di vini: dieci, venti, trenta campioni di una data area produttiva. È infatti difficilissimo che nell’animo di un critico anche attento non si inneschi il gioco dei riconoscimenti: “questo è il Brunello di x, senti quanto è marcato dal rovere; quest’altro è il Brunello di y, è già un po’ evoluto ma il frutto è molto chiaro”, e simili. E in questo gioco di specchi opachi la chiarezza del giudizio si appanna.

Opposto al caso precedente, un panel in cui le informazioni di partenza siano troppo generiche: “Igt toscani 2015”, e basta. In una situazione simile il non sapere da quali uve siano ottenuti i vini, e da quali aree provengano, genera non di rado risultati incoerenti.

Si tratta quindi spesso della classica coperta troppo corta. Se i dati di partenza sono molto precisi (“Barolo di Serralunga 2010”), c’è il rischio di far partire la corsa al riconoscimento della mano del vignaiolo e dell’eventuale cru. Se i dati di partenza sono vaghi, c’è il rischio di attribuire valutazioni prive della necessaria focalizzazione sul carattere del territorio, delle varietà di base, dello stile produttivo.  Solo in presenza di un numero di campioni sufficientemente ampio e insieme omogeneo (ad esempio “Chianti Classico 2018”) i due rischi vengono attenuati o azzerati.

Tirando le somme, la degustazione alla cieca ha i suoi limiti teorico-pratici. Ma a scanso di equivoci anch’io la ritengo fondamentale nella grande maggioranza delle situazioni. È una pratica consolidata che non va quindi ridotta né tantomeno abolita. Si tratta, una volta di più, di usarla con senso critico, e non di applicarla in modo meccanico.

One Comment

  • Vittorio Fiore ha detto:

    Mi è molto piaciuto sia l’argomento trattato da Rizzari, sia il modo e le argomentazioni con cui ha espresso il suo parere sul tema.
    Ovviamente sono d’accordo con lui al 100% e condivido anche l’aver tirato in ballo l’aforisma di Churchill sulla democrazia, per sottolineare che anche una cosa non perfetta può essere la soluzione ottimale in assenza di qualcosa di meglio.

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