

La prima volta che lo conobbi fu lui che appositamente approdò sul continente, dalla amatissima Isola del Giglio, per venirmi ad incontrare a Scansano e farmi conoscere il suo vino da uve ansonica e da agricoltura arcaica.
Il suo nome: Francesco Carfagna.
Camicia a fiori, ciabatte, capello arruffato, pelle arrostita dal sole, sorriso complice e solare: sembrava vivesse in una bolla di sogni e pensieri.
Da allora, e per le volte a seguire, l’ho sempre visto così. Invariabilmente.
Sulla bottiglia di Ansonaco 2014, riesumata oggi, ci ha scritto ” da bere quando se ne ha voglia“. Io di voglia ne tenevo ma devo anche ammettere che la mia fiducia nei suoi confronti contemplava diversi punti interrogativi.
E invece quel vino color ruggine e oro mi ha regalato una visione contundente: che non stesse sgorgando da un normale contenitore in vetro ma direttamente dalla roccia, roccia calda scaldata al sole.
Nel suo incedere solenne e nel suo gusto profondo, a tratti insondabile, qualcosa di ancestrale. Nella scia di salsedine, negli umori di lentisco, timo ed elicriso, la longa manus del Mediterraneo e del mare che c’è lì. Il tratto ossidativo come un manto leggero, il frutto appena dolce.
La forza evocativa ha così scardinato porte nuove, tracimando e riempiendo di risposte ogni più piccolo anfratto di perplessità.
Scoprire poi che questo Ansonaco va letteralmente a nozze con la cucina tipica viareggina, quella del calamaro ripieno e della trabaccolara, è stata un’ulteriore, deliziosa, appendice.
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