

Ogni appassionato di vino che si rispetti deve disprezzare, per stringenti obblighi sottoscritti all’atto della propria auto-investitura a “esperto di vini”, i vini varietali. I vini cioè che propongono in maniera troppo didascalica i loro marcatori aromatici tipici. Per gli stessi vincoli contrattuali è tenuto invece ad amare, onorare e rispettare sempre i vini “che esprimono il terroir”.
Da queste norme elementari, che tutti gli enofili conoscono, discende la proscrizione dei due reprobi principali: merlot e traminer.
Su uno scivoloso secondo gradino si collocano lo chardonnay – salvato dal suo provvidenziale legame con la Borgogna, che gli concede un salvacondotto universale – e il sauvignon.
Il sauvignon è davvero un caso a parte. Da un lato è deriso quando genera figli straccioni, che si vendono a pochi euro, pieni zeppi di note vegetali di peperone crudo e di sentori animaleschi quali in primis la celebre analogia con l’urina di gatto. Dall’altro strappa un consenso a mezza bocca “quando le note varietali si sentono poco o per niente e dà vita a bianchi di bella tensione”: id est nei casi migliori provenienti dalla regione francese della Loira.
Stretto da queste due polarità magnetiche, il sauvignon è un Giano bifronte. Esiste una terza via? Un modello stilistico differente, che sappia svincolarsi sia dall’eccesso di note terpeniche e mercaptaniche che dall’imitazione più o meno telefonata dei gessosi e minerali Pouilly-Fumé e Sancerre?
Non so se esista. Io un bianco che declina in maniera originale il carattere proprio del vitigno l’ho provato qualche sera fa. Si tratta del Sauvignon In der Eben 2016, un bianco firmato da un piccolo produttore, Urban Plattner. La vigna si trova nel comune di Cardano, vicino Bolzano. Tradotto letteralmente “in der Eben” starebbe più o meno per “in piano”. Un nome antifrastico, dal momento che proprio al contrario le vigne di Plattner si arrampicano su un costone piuttosto scosceso. Terreni porfidici, pietrosi, magri. Produzione piccola, in regime biodinamico (certificato Bioland). Niente sostanze di sintesi. Vinificazione achea. Insomma, tutto il repertorio “piccolo vignaiolo coscienzioso/approccio naturale/rifiuto della chimica”, che fa tanto enofilo avveduto.
Le mie note mentali di assaggio danno: colore giallo carico ma non spento, molto opalescente. Profumi dapprima in riduzione, poi sempre più focalizzati sulla pesca, con nuance sui lieviti (rimandi alla birra mit hefe). Palato sciolto e pieno di succo, molto naturale. Acidità viva e appena scomposta in chiusura. Grande senso di spontaneità, volume di bocca notevole, finale ritmato.
Non lo imparento né a un Sauvignon verde, né a un Sauvignon salino, e nemmeno a un Sauvignon arancione da lunga macerazione sulle bucce.
Lo imparento solo con se stesso.