Veneroso e i suoi fratelli. Le stagioni nuove della Tenuta di Ghizzano

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La premessa è d’obbligo: fu una delle prime cantine che conobbi e che frequentai. Forse perché geograficamente prossima ai miei luoghi, o forse perché se ne parlava e la voce iniziava a circolare. Il fatto poi che fosse condotta da una donna (Ginevra Venerosi Pesciolini) ne amplificò maledettamente il fascino. Non era affatto scontato, in campagna, a quei tempi. Ricordo soltanto che io ero all’acme della mia infatuazione giovanile per il vino. Avevo tutto da costruire e una curiosità che girava a mille (“quand’ero piccolo mi innamoravo di tutto, correvo dietro ai cani…”)

La Tenuta di Ghizzano della nobile famiglia Venerosi Pesciolini ha indicato una strada. Imboccarla significò, nel loro caso, mettere da parte le tradizioni (nelle colline pisane il concetto di tradizione si sposava con l’insidiosa e oramai depauperata denominazione Chianti, frequentata spesso da vini incerti) per tentare di emergere con vini dal volto nuovo, frutto di una agronomia selettiva e di scelte enologiche attualizzate.

D’altronde si era negli anni Ottanta, anni di fermento per la vitivinicoltura toscana. Recuperare credibilità  – ché quello bisognava fare – voleva dire sposare certi comandamenti di cui divennero vati e interpreti gli enologi della genìa nuova. In certi casi, fare affidamento a vitigni étrangers. Gli stilemi adottati condussero alla nascita di vini sostanzialmente apolidi ma super curati, con la malcelata tentazione, qua e là, di esasperare concentrazioni, dolcezze & morbidezze, cospargendo il tutto di generose infusioni di rovere piccolo e nuovo. Furono in tanti ad innamorarsi di quel credo, la critica enologica in particolare. I vini tendevano ad assomigliarsi un po’, con alcune brillantissime eccezioni, soprattutto quando “sotto” pulsava un territorio parlante e potentemente vocato.

Fu a quei tempi che nacque Veneroso, autentico capofila dei supertuscan di sponda pisana, su una idea di Pierfrancesco Venerosi Pesciolini, il padre di Ginevra. Univa autoctonie (sangiovese) ad alloctonie (cabernet sauvignon) e negli anni il suo corredo varietale mutò un pochino: dapprima nella paletta entrò la malvasia nera, poi il merlot e infine, dagli anni Duemila, si assestò sul duopolio sangiovese-cabernet sauvignon.

Ben presto il Veneroso si distinse, grazie a certe doti che non si inventano, lanciando la scia ad una messe di vini del nuovo corso che da lì a poco sarebbero andati a comporre un mosaico sfaccettato e fin troppo frammentato dal quale, più che un fil rouge in grado di farci percepire i diversi accenti della campagna pisana espressi in un contesto di sostanziale omogeneità e condivisione varietale, pose in luce semmai il talento e la fantasia di un vinificatore rispetto a un altro, il manto consolatore della tecnica, la vistosità di vini a loro modo ineccepibili dal punto di vista formale anche se piuttosto inclini alla omologazione gustativa.

Ma se già alcune vecchie versioni di Veneroso sono apparse molto convincenti, quando non sorprendenti, anche alla luce del tempo che passa (forse per via della presenza del sangiovese, che ha sempre garantito una impronta toscana e sentimentale al vino), devo ammettere che non mi aveva mai scaldato il cuore Nambrot, l’etichetta culto della casa, capace fin dalle sue prime apparizioni di scavare un solco profondo nei cuori e nelle predilezioni della critica enologica imperante e di tanti appassionati.

Nacque negli anni Novanta del secolo scorso come merlot in purezza. Il merlot (at)tirava allora, sembrava un toccasana in grado di trasformare il ferro in oro. Ancora di là da venire i tempi in cui le espressioni vinose fortemente varietali sarebbero state snobbate dai bevitori più esigenti. Fu un vino concepito come prova di forza, questo qua, e tale rimase per un po’. A dire il vero non era neanche fra i più smaccati, in quanto che il terroir di Peccioli gli aveva conferito una salutare flessuosità, aldilà della baldanza. Negli anni però cambiò anima. Il merlot è rimasto, ma è stato affiancato da cabernet franc e petit verdot.

Questa lunga premessa per arrivare a dire che l’assaggio delle ultime produzioni della casa ha sortito il miracolo. Niente di più coinvolgente, anche se la traiettoria intrapresa vanta di già una sua storicità e una sua scia.

Veneroso 2016 (Terre di Pisa DOC) conserva il passo signorile e disinvolto del rosso che predilige le sfumature alla presenza scenica. Si muove bene all’aria, è cangiante, discreto nei toni, compassato nel sentimento di fondo. Il proverbiale afflato balsamico alimenta di freschezza un sorso articolato, sapido e profondo, confermando tutto il bene che si può dire per l’annata 2016 in Toscana. E’ un vino “adulto”, che negli anni ha acquisito temperamento e forza interiore. E questo lui ti dà.

Nambrot 2017 non sembra aver risentito dell’annata torrida e siccitosa, se non fosse per un pizzico di alcol in più nelle vene: integrità di frutto, densità bilanciata e balsamicità lo incanalano negli alvei di una sconfinata sensualità. Rispetto al Veneroso, ovviamente, cambia il registro aromatico, di imprinting più bordolese, così come cambia la sensazione tattile, più densa e carnosa, già in odor di velluto. E poi c’è quella melodiosa dolcezza che ne segna il passaggio e va a coinvolgere anche il tannino, senza per questo approdare a dimensioni “piacioniche”.

Su tutto, a brillare, c’è una assoluta mancanza di orpelli. Sì, davanti a questi vini non ti vien da chiedere di legni, estrazioni, macerazioni o altri “sfruculiamenti” enologici. Non più, perché questi vini parlano d’altro: recuperano schiettezza, e con la schiettezza una enorme spontaneità.

La stessa cosa fanno anche i Ghizzano bianco e rosso, che in tempi più recenti sono andati ad aggiornare dal “basso” la proposta della Tenuta. Entrambi conservano un timbro “uvoso” che non sposa compromessi; Il Ghizzano Bianco 2019 (vermentino, malvasia, trebbiano) si muove su un registro sfumato e sobriamente elegante, fra note fumé e di erbe, per un sorso di leggera fibrosità e conclamata scioglievolezza; Il Ghizzano Rosso 2018 (sangiovese; merlot) incrocia la sua florealità con una verace vitalità tannica, sintetizzando succo e sapore quasi fosse un vin de pays, di quelli fatti apposta per essere scolati in compagnia – dei cibi e delle persone – senza troppo pensare. Fragranti, diretti, comunicativi, sono vini-ponte fra il vecchio e nuovo, restano umili e nella loro struggente umiltà si esaltano.

Forse per rintracciare le ragioni di questo rinnovato dialogo con la “trasparenza” bisogna rifarsi a una quindicina di anni addietro, quando Ginevra ripensò il proprio approccio alla terra passando ad una visione agronomica più empatica e rispettosa dell’ambiente, ciò che progressivamente  – e coerentemente – avrebbe condotto ad una rivisitazione stilistica dei vini nel verso di una maggiore ariosità e bevibilità.

E forse non è proprio un caso se tutti questi preamboli, con il tempo, hanno fatto emergere una nuova misura. Accoglie in sé naturalezza espressiva, introspezione, dettaglio sottile. Quando è il caso, schiettezza senza fronzoli. I vini appaiono più interiorizzati rispetto alle evidenze materiche dei loro esordi. Hanno un didentro dispiegato, mostrano senza vergogna la loro nudità. Sulle frequenze di un equilibrio più risolto ti conquistano a una eleganza nuova, conducendoti su quell’esclusivo crinale in cui istinto e complessità si fondono, e tu non sai che scegliere.

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Tenuta di Ghizzano – Via della Chiesa 19 – Località Ghizzano – Peccioli (PI);  tenutadighizzano.com

 

FERNANDO PARDINI

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