I vini del mese e le libere parole. Luglio 2020

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Champagne Grand Cru Oxymore 2008 – Ernest Remy

Se c’è una forzatura, in questo champagne, essa dimora nel nome che gli è stato dato: Oxymore, quasi che il bianco (chardonnay) e il nero (pinot noir) di cui si compone siano di per sé concetti contrari, impossibili da far coesistere. Non è così. E in Champagne lo sanno bene che non è così.

Per il resto, devo ammettere che Oxymore 2008 della maison Ernest Remy, taglio paritario di “bianco e nero” ricavati dai vecchi ceppi a Grand Cru di Mailly, non conosce forzature di sorta.
È quando complessità e nonchalance si fondono in tutt’uno e tu non sai che scegliere.
È quando la beva travolgente e quasi compulsiva a cui ti costringe sembrerebbe adombrare qualcosa di più profondo che l’avidità di bevitore rischia di soprassedere, ma che lui in realtà va conservando come un dono, nell’attesa che venga finalmente còlto.

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Côtes du Jura Fleur de Savagnin 2017 – Domaine Labet

Non pensavo si potesse arrivare fin quassù.
Sa di tutto, e scolpisce nuove memorie.

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Cerasuolo d’Abruzzo 2017 – Valentini

Un Cerasuolo d’Abruzzo subliminale e sussurratissimo, dai cromatismi luminosi e leggeri, che ti ripaga con la delizia di un passo elegante. Materia e alcol evaporano come in sospensione su trame fatte di solo slancio, la rarefazione è di casa.

Un Valentini ricamato, di rara finezza e disinvoltura di beva.
In un certo qual modo atipico, rispetto ai suoi standard.
Di questa grazia nuova, però, farai presto ad innamorarti.

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Vino Nobile di Montepulciano Palazzo Contucci 2013 – Contucci

Da una firma enoica giusto giusto millenaria, ecco il raro Palazzo Contucci, venuto al mondo in occasione del cinquecentennale dello storico Palazzo Contucci, quale selezione di uve sangiovese ricavate dai due cru Mulinvecchio e Pietra Rossa.

Alamanno Contucci ha calato l’asso, propiziando una reale corrispondenza euritmica: un vino-monumento. Proprio come il palazzo.

Fondamenta solide, materia e slancio in connubio ispirato, eleganza d’archetipo, risonanze profonde. E’ il Sangiovese quando coniuga classicità di forma e di sostanza, sublimandosi in qualcosa che non scordi.

Qui c’è la mano, e c’è il sentimento. Montepulciano ha trovato un nuovo protagonista.

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Barbacarlo 2015 – Comm. Maga Lino

Se ami il Barbacarlo significa che ami il suo mondo e la sua storia, e di quel mondo – di quella storia – i suoi protagonisti. Quindi anche Lino Maga  – piccolo grande vignaiolo dell’Oltrepò pavese -, per quello che rappresenta ed ha rappresentato. Di più, se ami il Barbacarlo significa che ami il vino nella sua accezione più spudoratamente sincera.  Questo penso io.

Amare il Barbacarlo, in fondo, significa prendere posizione, fare una scelta di campo, e le scelte di campo spesso hanno a che vedere con il cuore. Facile quindi cadere nell’immedesimazione e restarne coinvolti. Eppure questo vino vanta anche i suoi bei detrattori, che forse non colgono il dipiù dietro la dolce esuberanza del frutto, la carbonica ballerina, la baldanza rustica tipica della prima gioventù.

E invece, pur restando un traduttore fedele del millesimo da cui discende, Barbacarlo è solito compiere il miracolo: a una golosità diretta e a un approccio ingannevolmente scanzonato ci unisce la profondità dei migliori esemplari della specie.

Perché nel virgulto indomito e nell’eloquenza del frutto c’è la scorza della terra, la sua terra. E in quel brivido sapido-minerale, che allunga il sorso a dismisura, la spiegazione spiegata di cosa significhi trasparenza espressiva.

Ecco, oggi ho davvero festeggiato il mio compleanno. Con l’acceleratore di buonumore per eccellenza. E con un vino vero. La meglio compagnia.

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Fontalloro 1999 – Fèlsina

A volte ritornano. Gli affetti antichi, intendo. Ma come sapeva della terra sua, questo vino qua!

Il tempo non ne ha scalfito il fulgore, la tenacia, la forza espressiva.

I tannini come sabbia, e poi un mare di sale.

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Rossese di Dolceacqua Vigneti d’Arcagna 1981 – Giobatta Mandino Cane

Della sua terra conserva il corpo magro, la tinta disadorna e il passo leggero, le spezie, lo “sgrutto” e l’oliva. Il tannino è come un soffio, che quasi non lo apprezzi più. Una forte corrente di acidità gli apre la strada, e lui la percorre tutta, fino alla meraviglia.

Di fronte a un vino del genere, così nudo, così struggente, e per come il tempo gli ha protetto il respiro, consentendo ad una rimembranza liquida di diventare poesia, mi spiego anche il perché Giobatta Mandino Cane, per la terra di Dolceacqua ed il Rossese, possa essere considerato un padre.

Me lo ricordo ancora, dietro al suo banchetto, ventuno anni fa, accendersi di entusiasmo e di parole per omaggiare la sua terra, frantumando  la scorza burbera e introspettiva che pure gli apparteneva.

E ho ancora bene in mente quando Antonio “Testalonga” Perrino, vignaiolo esimio dei luoghi, colui che mi ha regalato questa bottiglia speciale, mi portò ad Arcagna e mi fece vedere i vecchissimi ceppi che furono di Giobatta.
Quella visione mi introdusse nel mondo di Dolceacqua, ed io quel mondo lì non lo avrei scordato più.

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Vin Santo di Riecine 1978 – Riecine

Rarità fra le rarità, non tenevo memoria del Vin Santo di Riecine, offuscata dai ricordi intimi e speciali legati ai celebri rossi della casa.

Alessandro Campatelli, giovane direttore di questa cantina, lo ha estratto oggi dal cilindro, e ha fatto bene.

Bottiglia n.002 delle 100 prodotte. Anno 1978.

Ora, parlare per iperboli è un po’ da esibizionisti, lo so. Perciò mi limito a dire soltanto che se questo vino (santo) intendessi piazzarlo su di una iperbole, lui si collocherebbe naturalmente nel punto di fuga, quello tendente all’infinito.

E aggiungo pure che il Vin Santo di Riecine sfuggì anche a mio padre, che  – ne son certo – mai ne possedette un esemplare. Lui, instancabile frequentatore del Chianti, lì dove era solito portarci fin da quando ero piccolo, a domeniche alterne. Lui, che si era innamorato di Riecine e dei loro vini perché “Riecine era Riecine”.

Ho ricordi frammentari e non sempre a fuoco di quelle trasferte, però alcuni fermo-immagine restano scolpiti nella memoria: la nuvola di polvere bianca sulla strada ritta che da Gaiole porta a Riecine, la 500 prima, la 127 poi ad arrancare, il tintinnio delle bottiglie nello scuotimento generale di una piccola cilindrata sotto sforzo, le troppe curve e mio padre che parlava e sembrava contento.

Non rammento assolutamente nulla di quello che mi diceva in quei giorni lì, ma non ha importanza: proseguivamo una felice conversazione ininterrotta che dura da sempre, anche oggi che lui non c’è più.

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Immagine di copertina: Federico Zandomeneghi – “coppia al caffé” ( 1885)

FERNANDO PARDINI

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