Taccuino Francese/2

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Venerdì 28 agosto

Passeggio lungo la Rive gauche della Senna, fingendomi un flâneur. Guardo le bancarelle dei bouquinistes che da Quai Voltaire arrivano alla cattedrale di Notre-Dame. Libri d’occasione, libri rari, stampe, locandine, cartoline, souvenir. Da un librario agé di rara simpatia acquisto l’Album Pascal della Bibliothèque de la Pléiade del 1978 avec son coffret. Confesso di aver contratto una dipendenza, una vera e propria “libridine” da Pléiade. Negli ultimi tempi, con la pazienza del bibliofilo e il furore del tossico, ho collezionato l’intera serie della Biblioteca della Pléiade Einaudi-Gallimard, una cinquantina di volumi pubblicati tra il 1992 e il 2008, la più bella collana editoriale italiana.

Dalla Square Viviani, una rientranza del Quai Montebello, si può godere una delle più belle vedute di Notre-Dame. Ma la cathédrale metropolitaine, dopo l’incendio del 15 aprile 2019 che ne ha gravemente danneggiato il tetto e la fléche, è ancora chiusa. Il suo corpo è occupato dalle gru, la sua figura coperta dai ponteggi e dai teloni.

Il cielo vira al cupo. Mangio per strada una quiche lorraine, che a Parigi è buona più o meno dappertutto, dalle boulangerie di quartiere al bistrot del Louvre. Tagliando per il quartiere latino, scorgo la Shakespeare & Company, la storica libreria anglo-americana fondata nel 1919 e ubicata al n. 37 di rue de la Bûcherie. In vetrina c’è la prima edizione di Lolita di Vladimir Nabokov, pubblicato proprio a Parigi nel 1955. Costa € 1800.

Percorro il Boulevard Saint-Germain, entro nella chiesa di St-Germain-des-Prés (dedicata a St Germain, vescovo di Parigi, e costruita in mezzo ai prati, prés in francese, è una delle più antiche abbazie cittadine e la più densa di storia, trasformata però nel tempo dai continui interventi), ammirando il suo interno fitto di colori, immagino cosa doveva essere questo quartiere quand’era il centro intellettuale della capitale (i suoi locali ospitavano i pensieri di Apollinaire e Picasso, di Gide, Breton e Camus, di Hemingway, di MerleauPonty, De Beauvoir e Sartre), prima che venisse colonizzata da Vuitton, Dior, Armani, Apple, e raggiungo la Librairie Gallimard al 15 di Boulevard Raspail.

Vedo i dorsi rigati dei Pléiade brillare fin da fuori, al di qua della vetrina. Quando entro ci sono due intere librerie piene di volumi. Trovo addirittura un commesso italiano. Il suo primo gesto è di regalarmi il catalogo. Sfoglio, compulso e annuso diversi volumi (annuso i libri da quando avevo cinque anni, mi ripete sempre mia madre, e il profumo della carta dei Pléiade, un fragrante mélange di cuoio e pelle, è inebriante). Esco con le Œuvres di E. M. Cioran e mi precipito subito a leggere il rigo di uno dei suoi più folgoranti aforismi contenuti in Ècartèlement: «Tout eŝt rien, y compris la conscience du rien» (p. 993)[1]. E con le Œuvres poétique complètes di Jules Supervielle, un poeta poco tradotto in italiano che non conosco. Ho aperto il volume all’altezza del segnalibro giallo: c’è una poesia, un’invocazione a Dio, intitolata Ô Dieu très atténué. Accosto il naso alle pagine e – lo giuro – sento l’odore dell’incenso e della brace. L’ho preso per un segno e l’ho comprato.

Alla sera stappo lo Jurançon Ballet d’Octobre 2017 di Domaine Cauhapé, acquistato nell’enoteca Nicolas al 30 di Rue Rambuteau (Louis Nicolas aprì la sua prima cantina a Parigi nel 1822 e oggi il franchising conta oltre cinquecento negozi in Francia e quasi duecento nella sola Parigi). Ha un invitante frutto esotico e una dolcezza golosa, non eccessiva, perfetta per il Comté vieux che ho comprato nella fromagerie di fronte all’enoteca.

Sabato 29 agosto

Storica stazione ferroviaria parigina costruita nel 1900 in occasione dell’Esposizione Universale, poi centro di spedizione di pacchi e di accoglienza dei prigionieri di guerra nel 1945, set cinematografico (nel 1962 Orson Welles ci girò Il processo con Anthony Perkins nella parte di K), sede della compagnia teatrale Renaud-Barrault e di case d’aste, la gare d’Orsay divenne a metà degli anni Ottanta uno dei più importanti musei parigini.

Gli interni del Musée d’Orsay sono una meraviglia per gli occhi, specie il grande corridoio o navata centrale fitta di archi, finestre, sculture, dipinti, nicchie. Accolgono un’imprescindibile collezione d’arte (1848-1914), il cui pezzo forte è formato dalla pittura impressionista. Eppure, il quadro per certi versi più moderno e sconvolgente non è un Monet, un Manet o un Van Gogh, ma L’Origine du monde di Gustav Courbet, rappresentazione frontale del sesso femminile, che, nonostante il suo estremo realismo, non ha nulla di pruriginoso o pornografico, anche se al tempo sollevò un vespaio di polemiche.

Non maggiori di quanto era accaduto un paio d’anni prima con Le déjeuner sur l’herbe di Édouard Manet, un “concerto campestre” in abiti contemporanei con una donna nuda al centro della composizione che fissa lo spettatore mentre è in compagnia di due uomini elegantemente vestiti, e una pennellata sprezzante che graffiava la crosta dell’Accademia non meno della sua iconografia osé.

Due sono i principali pittori che lasciano negli occhi e nella mente segni indelebili: Claude Monet e Vincent Van Gogh. Del primo, accanto alla Gare St-Lazare, ai Papaveri, al Ponte giapponese e a una serie di paesaggi dai colori accecanti, spiccano i Covoni di grano, dove la luce vibra, le Cattedrali di Rouen, dove la luce si disfa, e il fuoco che sembra ardere nel Parlamento di Londra, dove il sole si apre una breccia nella nebbia («Trouée de soleil dans le brouillard», recita il sottotitolo del quadro), smaterializzando l’edificio in un tale vortice di colori impazziti da sembrare una personalissima, estrema interpretazione della Tempesta di neve di William Turner conservata alla Tate Britain di Londra.

Del secondo, accanto alla celeberrima Camera di Arles, alla Chiesa di Auvers-sur-Oise, alla Notte stellata e al Ritratto del dottor Paul Gachet, emergono in tutta la loro potenza cromatica, materica e fisiognomica i due Autoritratti: a quello, tormentato, con le ipnotiche spirali dello sfondo dipinto del settembre 1889, dove il pittore appare come un contadino vestito a festa, fa eco quello ancora più audace dell’autunno 1887, dove Van Gogh si ritrae, con il furore di un personaggio dostoevskiano, come un pazzo o un demone.

Domenica 30 agosto

Come per Notre-Dame, ma con diversa accezione, il Centre Pompidou invaso dalle impalcature dei ponteggi sembra quasi l’installazione di un artista contemporaneo. Il groviglio di travi, gabbie e tubature colorate si espande e si complica, confondendo lo sguardo. Rivoluzionario lo è stato, il Pompidou, e anche oggi l’idea di mostrare all’esterno gli elementi portanti, le scale, gli ascensori, le scale mobili, le strutture di ventilazione e riscaldamento, i condotti dell’acqua e del gas, liberando lo spazio interno dedicato agli allestimenti, non manca di destare curiosità e ammirazione.

Meno eccitante – almeno per me che non ho un debole per molta arte del secondo Novecento, dall’informale alla “performativa”, passando per le cosiddette “istallazioni”, dentro cui si nasconde molta fuffa – è il Musée National d’Art Moderne, che pur non manca di pregevoli opere di Ernst Ludwig Kirchner, Pablo Picasso, Amedeo Modigliani o Marc Chagall appese in ampi, luminosi, godibili spazi. Al sesto piano c’è una delle più belle vedute di Parigi. Fuori, sul retro del parallelepipedo, c’è un vecchio ingobbito che distribuisce da mangiare a frotte di piccioni: mi permette di fotografarlo purché mi mantenga alla giusta distanza. Non per timore del virus, ma per non disturbare le sue amate creature.

Lunedì 31 agosto

Cammino lungo gli Champs Elysées, mangio una crêpe al Jardin des Tuileries, entro all’Orangerie a rivedere le Ninfee di Claude Monet (otto enormi, spettacolari pannelli disposti lungo le pareti di due sale ovali per una visione al contempo ravvicinatissima e grandangolare; qui, anni prima del sopravvalutato dripping di Jackson Pollock, nasce la pittura gestuale – l’Impressionismo è tramontato da tempo, e il suo epitaffio è stato dipinto proprio dal suo principale cantore), girovago per il Marais.

[1] «Tutto è nulla, anche la coscienza del nulla» (E. M. Cioran, Squartamento, traduzione di Mario Andrea Rigoni, Milano, Adelphi 1981, p. 147).

Contributi fotografici dell’autore

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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