Sono affascinato da tempo dal concetto di confine e ci sto con grande lentezza imbastendo sopra un libro/saggio, che credo terminerò nel 2033. Le zone di confine, in cui un’area perde contorni definiti per trascolorare in un’altra, sono di solito straordinariamente vitali. Ciò non vale solo in termini meramente geografici, ma si coglie in numerosi altri ambiti dell’esperienza umana.
Il confine tra suono e silenzio, per esempio, è una regione misteriosa e tuttavia perfettamente nota agli esperti di acustica: il cosiddetto “transitorio d’attacco” è il momento in cui la corda di un violino – o la colonna d’aria in una canna d’organo – non sono ancora entrati in piena vibrazione, ma non sono più immobili. Là l’orecchio allenato coglie la vera qualità di uno strumento.
La parola stessa, confine, svela etimologicamente un significato fecondo. Come annota acutamente Antonella Tarpino, si deve porre l’accento “sulla preposizione cum, di cui si compone il termine, per privilegiare la linea di con-giunzione – ciò che è comune tra due territori – a differenza della parola frontiera (da frons, fronte, fronteggiare), che è ciò che li divide.”
La cultura del confine è libera, quella della frontiera è una prigione. In queste ore stiamo attendendo i risultati delle elezioni americane. Con poche speranze, per quanto mi riguarda, che la cultura della frontiera, dei muri, della separazione, conosca una sia pure provvisoria battuta di arresto. Non è nello spirito dei tempi, temo. Il confine, che è poroso, permeabile, aperto, è un valore d’altri tempi: passati, e ci si augura futuri. Oggi prevalgono gli agenti divisivi, l’identità tribale, l’esclusione del diverso.
E questa era la parte ottimistica del post. Figuriamoci il resto: cioè quello che ci aspetta.
Per rimuovere dai confini dell’io le suddette, fastidiose evidenze, è meglio berci sopra. Con un vino di confine, è ovvio. Il Carso Malvasia di Skerlj, edizione 2017, è un vero vino di confine: non è propriamente un bianco macerativo, anche se la frazione di permanenza sulle bucce gli dona una discreta, misurata trama tannica; non è un bianco aromatico, anche se la componente olfattiva della malvasia qua e là fa capolino; non è un bianco affilato e salino, anche se la sua freschezza acida è evidente.
Si trova su un punto liminale, insomma. E prende il meglio dai territori sensoriali che sfiora, anziché escludere uno o l’altro.
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