

Nei rari casi in cui mi accingo a parlare di un libro mi viene subito in mente la prima delle tre recensioni anomale nel Diario minimo di Umberto Eco, dedicata alle banconote da cinquantamila e centomila lire (“Le due opere in oggetto possono definirsi edizioni numeretées in folio. Stampate in recto e in verso, esibiscono pure, in controluce, un prezioso lavoro di filigrana, opera di alto artigianato e di estrema efficienza tecnologica, raramente raggiunta, e sempre a prezzo di sforzi e rischiosi fallimenti, da altri editori. Tuttavia, mentre presentano tutte le caratteristiche dell’edizione preziosa per amatore, sono state tirate in un grandissimo numero di esemplari. Questa decisione editoriale non ne ha fatto peraltro un esempio di edizione economica, talché il loro prezzo non è alla portata di tutte le borse (…) Comunque siamo grati all’editore di averci inviato le copie omaggio per la recensione.”)
Il mio parere, che peraltro condivido abbastanza, è che una buona recensione non possa che essere anomala. Solo in questo modo, con un tiro a due o tre sponde, si evitano la notomia da esperti forensi e soprattutto ogni rischio anche remoto di suonare condiscendenti verso l’autore. Non avendo però la profondità espressiva di Eco, ma solo mezzi simili a quelli del Mago Forrest, dovrò limitarmi giocoforza a una recensione non anomala.
Cominciamo dall’autore, Massimo Roscia. Lo definisco giovane, sia anagraficamente che nello stile, anche se i suoi annetti ce l’ha, essendo del 1970. Ha un acume raro da rintracciare nel panorama scrittorio italico, e una scrittura luminosa, straordinariamente piacevole, alle antilopi della pesantezza inerte di molti tromboni contemporanei. È diventato a giusto titolo famoso per La strage dei congiuntivi (Exòrma, 2014), volume che ha avuto una novantina di ristampe e che ha aiutato molti analfabeti funzionali a prendere coscienza dei propri limiti linguistici e umani. Ora è anche attore e performer (suo lo spettacolo teatrale Grazzie del 2019). Sul piano personale, ma questo non rileva, ci conosciamo da anni; e anche se le nostre frequentazioni si riducono a un caffè ogni sedici mesi, posso dire che di persona è divertente quanto la sua scrittura.
In queste settimane esce il suo nuovo libro, Il dannato caso del signor Emme. Il signor Emme del titolo, e qui veniamo al nostro orticello enogastronomico, è il grande Paolo Monelli. Del quale è appena il caso di ricordare le pietre angolari della letteratura di settore – e della letteratura italiana tout court – Il Ghiottone errante (1935) e Optimus Potor, ossia il vero bevitore (1963).
Massimo ha compiuto preventivamente un impressionante lavoro di ricerca documentale e storiografica presso il Fondo Paolo Monelli, “visionando un patrimonio archivistico vasto ed eterogeneo”. Nel libro parte da un motore narrativo di fantasia – il viaggio in un vecchio scuolabus dell’ex giornalista Carla e dei suoi figli gemelli attraverso un’Europa distopica, in cui si mescolano vari piani temporali – per far risaltare la ricchezza unica del materiale tematico di cui Monelli si è occupato per decenni: l’enologia e la gastronomia, certo, ma anche “le due guerre mondiali, la politica internazionale, la tutela ambientale, il turismo culturale” eccetera eccetera.
Non ho ancora letto il libro, ma comunque lo trovo bellissimo. Con l’augurio, a me stesso e a chi scorre questo articolo, di divorarlo in poche ore o pochi giorni (sono 321 pagine), ne propongo due o tre estratti vinosi:
“Gli oltre duecento articoli che ci ha donato Ghitta Carell testimoniano che il Signor Emme era anche un eccellente gastronomo. Per lui il cibo non era solo ciò che si mangia, ma storia, cultura, memoria, identità e piacere. È per questo che i reportage delle sue scorribande culinarie non si risolvono mai nella mera descrizione di un piatto, un bicchiere di vino o una trattoria, ma diventano un pretesto per raccontare antiche tradizioni, riti, ricordi, gesti, paesaggi, sentimenti, simboli e valori, per raccontare, in una parola, la vita. E in questo il Signor Emme è un maestro. Ogni assaggio e ogni sorso fanno emergere il suo sapere, la curiosità dell’esploratore, l’acume, la profondità di pensiero, la capacità di mescolare elegantemente diversi stili di scrittura, la prodigiosa abilità descrittiva ed evocativa che stiamo ormai riconoscendo in tutti i suoi componimenti.”
“§ Reperti EN00040519-EN00040777.
Enogastronomia.
E sugli aurei gnocchi, piccoli, morbidi, cotti nel burro di montagna rossastro bruciato come questi antichi marmi duecenteschi, bellamente rivestiti di parmigiano vecchio che pare un rugoso leone di San Zeno, versammo l’oro lieve e corrusco del Soave; poi sulle paparelle con i fagioli dal colore perso di crepuscolo malinconico accendemmo infine il sole rosso e ardito del Valpolicella.”
“§ Reperto numero 9.
Busta contenente tre etichette di vecchie bottiglie di vini portoghesi.
Vinho Branco, Colheita 1949, Muito seco, Gaeiras, Óbidos
Vinho Verde Branco, Casal Garcia, Quinta da Aveleda, Penafiel
Vinho de mesa, Quinta d’Aguieira, Conde de Águeda, Águeda
Note a margine.
Ho fatto le mie ricerche. Óbidos, Penafiel e Águeda sono tre zone particolarmente vocate alla viticoltura. I vini in questione, prodotti da storiche e blasonate aziende portoghesi, ci inducono a pensare che il Signor Emme fosse un O.P. (Optimus Potor, cioè un vero bevitore). L’indicazione dell’anno della vendemmia di uno dei tre vini, il 1949, ci tornerà utile per una migliore messa a fuoco dei piani temporali della ricerca.”
Grande Massimo!
In non mediocre forma, egregio signor Erre!