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La convenzione dell’annata

Dialogo introduttivo

Sono innamorata di te
Non puoi essere innamorata di me, sei solo una ragazzina, non sai cos’è l’amore. Io non so cos’è l’amore, nessuno sa di che cavolo di tratti

(Manhattan, Woody Allen)

È quello che succede quando tra appassionati di vino si parla di annate. Perché comunque la si rigiri, che si parta da un approccio algidamente tecnico (“a un periodo primaverile caratterizzato da una pluviometria importante, con alcuni episodi di gelate notturne che hanno causato aborti floreali nella vigne più esposte, è seguita un’allegagione…” eccetera) o che si arrivi fino ai neurodeliri della Setta degli Adoratori del Fluido Astrale del Pianeta Pan (“l’annata 2016 è stata benedetta dall’influsso della terza luna di Giove, Ganimede, che ha invertito la polarità negativa causata dalla pulsazione magnetica anomala del Monte Rosa, e ha favorito lo sviluppo armonioso delle vigne che guardano a sud-est”), nessuno può circoscrivere in una definizione univoca un anno nella vita della vite – e il vino che se ne ricava – in un territorio dato.

Sono troppe le variabili in gioco, tra elementi umani e naturali. Certo, ci si può avvicinare per approssimazioni: il 1989 è grande a Bordeaux e non un granché in Toscana, la 2014 è un’annata sottovalutata ma sta offrendo molte bottiglie armoniose, i 2010 della Côte d’Or si stanno aprendo, e simili. Si tratta però di linee guida generiche. Oltre questo, a essere onesti, non è prudente spingersi.

A questa variopinta congerie di cose pensavo stordito, l’altra sera, davanti alla bellezza sfolgorante di un Borgogna della vendemmia 2004. Una vendemmia che non gode di grande reputazione per i vini rossi. Anzi. Salvata da un settembre soleggiato, è stata una stagione produttiva afflitta da varî problemi di stato sanitario delle uve, e ha dato in media rossi vegetalozzi nel frutto e nella tessitura tannica.

In media e per approssimazione, appunto. Se ci si imbatte in un vino d’antologia come lo Gevrey-Chambertin di Claude Dugat si viene invece trasportati in regioni sensoriali dove si muovono solo i Borgogna più ipnotici. Non brillante nel colore, già sul granato, esplode come una granata nelle narici, scagliando schegge aromatiche in ogni direzione: c’è la serie del frutto, in ogni possibile declinazione; c’è la serie cosiddetta empireumatica, con una compatta gragnuola di note affumicate e tostate (ma non tostate dal legno, eh); c’è soprattutto la serie delle essenze profumiere e delle spezie d’Oriente, questa davvero quasi intossicante. Sembra di aggirarsi in un souk del Maghreb.

Ho sbagliato similitudine, parlare di ordigni esplosivi è fuori luogo e vagamente inquietante. Questa stordente proiezione di luci e colori olfattivi ha luogo infatti senza alcuna violenza, in un clima pacificato, sereno, avvolgente.
Il gusto, pur essendo magnifico per nitidezza e purezza nell’estrazione, cede qualcosa a centro bocca e nel finale, che hanno lontane eco “verdi”. Pur senza mai arrivare a toni taglienti o troppo crudi.

Per l’ennesima volta ho convenuto con me stesso che parlare a blocchi di annate è solo una convenzione. Se proprio devo generalizzare, ho avuto banale conferma che il motore centrale del grande Borgogna rosso gira a pieno regime in anni “classici”, né troppo caldi né troppo freddi. Il pinot nero, quest’uva/territorio che qui diventa Borgogna tout court, ha scarti imprevisti da purosangue sia in presenza di annate mediterranee, sia quando deve fare i conti con annate – sempre più rare – infelici.

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