Che il vino sia – anche – un mistero non è solo un luogo comune ma un dato empirico ineludibile.
Uno dei misteri del vino è quando ha un andamento retrogrado. Ne ho già scritto e ne riscrivo volentieri, stavolta su sollecitazione del gruppo Facebook “Su, dai, ridiccelo”
Il vino – quello vero intendo, il prodotto di un luogo e di un artigiano, non la bevanda standardizzata ottenuta tramite protocolli industriali – si comporta spesso in modo eccentrico. Ha una sua personalità e fa come gli pare. Se gli girano ti manda per campi, diciamo; se è in buona, ti fa salire sul suo tappeto magico alcolico e, senza sovrapprezzo per la corsa, ti trasporta in regioni celesti cui non avresti mai avuto accesso senza prima defungere o spararti in vena mezzo litro di acido lisergico.
E dunque. Il percorso classico del vino maturo appena stappato, specie del vino che è costruito per reggere molto tempo in bottiglia, è:
– esordio olfattivo contratto, quasi ostile al bevitore; riduzione più o meno forte; scarsità o assenza di aromi
– sapore di conseguenza, un po’ cubista: acidità da una parte, tannini dall’altra (nel caso di un rosso, ovvio), alcol su, aromi floreali e fruttati giù
– sviluppo all’aria che scioglie tutti i suddetti nodi e schiarisce il panorama, smussando gli spigoli e aprendo i profumi e il gusto
– incipienti toni ossidativi dopo un giorno o due dalla stappatura, ossidazione completa dopo una settimana o giù di lì, secondo i singoli casi
Alcune volte però succede l’esatto opposto. Certo, il rilievo statistico mostra che non si tratta di casi frequenti. A me è ricapitato qualche giorno fa. Stappato la sera precedente, un grande vino della Mosella, il Riesling Spätlese Wehlener Sonnenuhr Dr Loosen 2001, appariva nobilmente stanco, su toni delicatamente evoluti di mandarino candito e zafferano. La conclusione sembrava ovvia, quella sera: il vino è quasi arrivato, l’ultima bottiglia andrà bevuta in fretta.
E invece manco per niente: il giorno dopo il vino rimasto nella bottiglia risultava fresco, dritto, veloce come quadrello di balestra. Una spremuta di arancia rossa. Prima semi-ossidato, dopo ventiquattro ore fresco come una rosa.
Può succedere con ogni tipologia di vino. Più spesso, o meno raramente insomma, con i vini rossi. Così descrivevo una decina d’anni fa la bevuta di un Barbaresco Borgogno del 1952:
“Il vino, peraltro a conti fatti assai buono, ha tenuto un comportamento bizzarro. Appena versato nel bicchiere si è offerto con generosa ampiezza e chiarezza d’esposizione, contrariamente a quanto capita nella stragrande maggioranza dei casi aprendo una bottiglia tanto datata: un sottobosco accennato, su base di frutta candita (scorza d’arancio candita) e delicate note di fiori appassiti (rosa appassita). Anche al gusto espressivo, leggibile, scorreva a meraviglia e finiva con un delicato tono fungino e un ancor più leggero sentore di noci, a segnalarne la controllata ossidazione.
Incoraggiato da tali evidenze, il giorno dopo sono corso a berne un paio d’altri bicchieri. Con mia sorpresa il vino si era chiuso a riccio; e scrivo chiuso a riccio, non ossidato. I toni ossidativi erano scomparsi, così come quelli floreali e fruttati. Al loro posto, la configurazione che avrei dovuto trovare alla stappatura: note di forte riduzione, credenza chiusa, capocchia di fiammifero bruciata, bocca rigida, austera, dai tannini molto severi. Un percorso retrogrado.
Come gli amanti del vino sanno fin troppo bene, ammantando questa evidenza con strati di retorica stucchevole, ‘il vino è una materia vivente’, ‘il vino vero è imprevedibile, spiazza e confonde’. Retorica o no, è proprio così.”