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Diverse declinazioni di nebbiolo

Mentre i rossi delle Langhe – o quantomeno i Barolo e i Barbaresco – si trovano ormai nell’Olimpo dei cosiddetti premium wines, spuntando con le etichette più contese prezzi impensabili anche solo una decina d’anni fa, chi altrove coltiva nebbiolo si muove in un contesto più rustico, più semplice, più artigianale. Non è un’idealizzazione ma un dato di fatto.
Gli ex umili contadini langhetti sono oggi non di rado imprenditori su scala planetaria. I vignaioli che fanno rossi da nebbiolo nell’Alto Piemonte, in Valle d’Aosta, in Valtellina, lavorano spesso parcelle di terreno modeste e di sicuro non piazzano bottiglie nelle aste internazionali a caro prezzo.

Ciò è vero in speciale misura per la Valtellina, dove gli artigiani dai piccoli numeri produttivi non controbilanciano il peso che hanno le grandi firme e i grandi imbottigliatori locali. Qui è nata qualche anno fa una sorta di libera associazione di vignaioli, che si è autodefinita con una sfumatura ironica i Veltliner (“abitante della Valtellina” in tedesco). Capofila – o meglio primus inter pares – la famiglia Sega della firma Barbacan.

Coltivatori di circa sette ettari di vigne terrazzate che ricadono nel comune di San Giacomo di Teglio, Angelo (il padre), Luca, Matteo (i fratelli) Sega sono l’opposto esatto del winemaker/manager ubiquo in ogni angolo del pianeta dove si coltivi la vite ma desolatamente assente dalle sue terre. I Sega vivono, mangiano, dormono in vigna. È un’iperbole, certo, ma non troppo lontana dalla realtà.

Le diverse parcelle ospitano, oltre alla chiavennasca, numerose varietà locali: la rossòla, il rossolino rosa, la pignòla, la brugnòla, il chiavennaschino, la bressana, la negrera, e via via andare. Tutte più o meno imparentate geneticamente alla chiavennasca, quindi al nebbiolo. “Anzi, sull’origine del nebbiolo di Langa non è così peregrina l’ipotesi che provenga proprio dalla nostra zona”, rimarca Luca.

I vini di riferimento della gamma, veri e propri cru aziendali, sono il Söl e Jazpémi. Il Söl insiste su una vigna molto verticale, che in alcuni punti supera i 500 metri di altitudine. Fa nascere rossi sapidi, dai tannini molto affilati in certe annate. Jazpémi (anagramma di Pizaméj, che è il nome storico dialettale della parcella) dà in genere “vini eleganti, molto freschi, dotati di grande profondità e intensità con tannini levigatissimi”, nelle parole di Matteo Sega, e ha un’età altrettanto veneranda.

Lo stile dei vini aziendali è improntato a una classicità austera, lontana anni luce dai rossi imbottiti di legno e di dolcezza fruttata della (ex) nouvelle vague italiana. Sanno però unire a una silhouette slanciata, longilinea, una buona polpa di frutto, ciò che li rende di facile approccio anche da giovani.

Esistono poi imbottigliamenti particolari: “Livèl e Fracia sono le due vigne da cui escono le Riserve per le quali raccogliamo le uve solo delle piante centenarie. Qui ci sono diversi salti d’annata, bando alla serialità, i vini escono solo quando la vigna si esprime ad altissimi livelli quindi non basta l’annata ma anche la vigna deve esprimersi al meglio e con la variabilità che c’è in Valtellina non capita tutti gli anni”, annota Matteo Sega.

Sono rimasto particolarmente colpito dalla qualità elevatissima del Jazpémi 2018, un raro conseguimento per originalità aromatica e delicatezza gustativa. Qui colgo, consapevole dello scivolamento nella retorica, l’anima più delicata e profonda del nebbiolo. In apparenza senza peso, leggero come una piuma, fa avvertire l’energia tannica tipica della varietà in una forma quintessenziale. I tannini ci sono, ma si percepiscono privi della terrosità “scura” di un potente Barolo; non spogliati, ma per così dire nitidi e trasparenti.

Non dubito che gli altri rossi del gruppo dei Veltliner siano altrettanto ispirati: ne scriverò in un prossimo articolo monografico.

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