Oggi tutti conoscono il Pecorino – inteso come vino -, perfino gli enofili. Non è infrequente orecchiare al ristorante delle conversazioni di questo tenore: “che ci beviamo per iniziare? un prosecchino (absit iniuria verbis)?” “No, andiamo su un bel Pecorino, è più fresco”.
Un tempo non era affatto così. Ricordo quando sui banchi d’assaggio arrivarono i primi bianchi dalla misteriosa varietà pecorino: era all’incirca la prima metà degli anni Novanta del secolo scorso. All’epoca noi degustatori della vecchia guardia eravamo abituati a bianchi dal suono meno rustico: Vernaccia, Vermentino, Verdicchio, Soave, con regolamentare corredo degli “internazionali” Chardonnay e Sauvignon. La scoperta ovvero riscoperta di molti dei nostri vitigni tradizionali era appena agli inizi. Nomi come pecorino, cococciola, passerina, erbaluce, timorasso, e compagnia cantante, suonavano esotici, bizzarri, mai uditi in precedenza.
Come sempre accade l’ignoranza fece compiere a molti di noi – di sicuro pure a me – grossolani errori di valutazione. Il più comune era desumere che il produttore abruzzese o marchigiano di turno avesse aggiunto del sauvignon all’assemblaggio: ci pareva infatti strano che un “Pecorino” sapesse tanto sfacciatamente di pipì di gatto, pomodoro, salvia, pesca. Che il suo quadro sensoriale fosse insomma in quasi perfetta sovrapposizione con quello di un tipico Sauvignon.
Dopo un po’, in spirito di servizio ispirato a una lodevole carità cristiana, alcuni amici enologi ci misero al corrente dei punti di contatto aromatici tra l’uva pecorino e l’uva sauvignon, quando la vinificazione mette in rilievo certi testimoni aromatici. Come si spiega a un settenne, si adoperarono a chiarirci che no, non avevano aggiunto nemmeno un grappolo di sauvignon nei loro Pecorino. Il sottinteso era che la smettessimo di scrivere minchiate.
A questo pensavo provando per la prima volta un Pecorino abruzzese per me nuovo. E mica un Pecorino qualsiasi, un Pecorino ottenuto da uno dei vigneti più estremi d’Italia quanto ad altitudine sul livello del mare. Una vigna non lontana dai mille metri: 862, per l’esattezza. Un vino nato dalla collaborazione tra l’azienda Feudo Antico e il noto chef Niko Romito. La parcella si trova infatti proprio accanto al suo ristorante Reale, nel complesso di Casadonna (Castel di Sangro, L’Aquila, Abruzzo, Italia Centrale, Europa).
Dopo anni di sperimentazione, qui nasce uno dei Pecorino più compiuti e convincenti dell’intera tipologia. Tralascio per noia mia personale e quindi per puro egoismo i dettagli sulla coltivazione e sulla vinificazione; d’altronde basta farsi un giretto su google per reperire tutte le informazioni del caso. Basti forse al lettore meno esigente avere qualche sintetica dritta sulle sue qualità, che sono notevoli.
Terre Aquilane Pecorino Casadonna 2018 Feudo Antico
Bel colore, intenso e pieno nonostante la (relativa) gioventù. Molto focalizzato all’olfatto, su tutte le sfumature possibili di agrumi freschi (limone in primis), che si srotolano su una delicata base di frutta esotica. Palato in perfetta continuità, affilato ma non rigido né tantomeno crudo.
Terre Aquilane Pecorino Casadonna 2017 Feudo Antico
Profilo cromatico, aromatico e gustativo molto simile al precedente. Gli elementi sono anche più integrati. In chiusura si coglie, in forma embrionale, un accenno di corrente terziaria (nafta). Anche in questa edizione la contenuta frazione alcolica (12,5 gradi dichiarati in etichetta, quindi non più di 13 gradi reali) aiuta a mantenere una silhouette agile e rinfrescante.
Terre Aquilane Pecorino Casadonna 2015 Feudo Antico
Un po’ più alcolico – e ci sta, data l’annata – ma perfettamente coerente nello stile e nella dinamica rispetto alle due annate precedenti: vibrante, succoso, molto reattivo. Qui la componente idrocarburica è più di una sfumatura, ciò che si avverte soprattutto nell’articolato finale.
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