Dealcolazione da Tiffany

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Le domande principali che si fa il bevitore di vino negli anni Venti del nuovo secolo sono sempre le stesse del passato: dove trovo a meno il Barolo di Teresa Mascarello? Questa boccia l’ho pagata ottanta euro nel 2008, ora vale cinque volte di più: se sa di tappo che faccio, scrivo al produttore o mi incazzo e basta? Pinuccio alla Pineta ce l’avrà ancora in carta il Trebbiano di Valentini 2010?

A questi eterni quesiti esistenziali si aggiungono due dilemmi recenti:

a) esiste il cambiamento climatico o è un’invenzione della lobby dei condizionatori?

b) se il cambiamento climatico esiste, c’è un modo onesto e virtuoso – cioè non furbesco e qualitativamente dubbio – per ridurre la frazione alcolica dei vini, che ricordiamolo arriva in molti casi a sfiorare il 15%?

I suddetti interrogativi sono vieppiù alla ribalta da quando si è appreso che è in via di possibile approvazione presso la Commissione Europea (le decisioni finali saranno prese a fine maggio) una modifica delle disposizioni relative alla dealcolazione (abbassamento artificiale del volume alcolico) di tutti i vini: vale a dire non soltanto di quelli da tavola, ma anche quelli a denominazione di origine. A ben guardare non si tratta di una vera minaccia alla qualità dei nostri vini né tantomeno di un nuovo e sciagurato provvedimento. Come ci informa il sempre prezioso Maurizio Gily, riprendendo un recente articolo di Alessandra Biondi Bartolini apparso su Millevigne:

La notizia quindi è che non c’è (ancora) una notizia: si parla di pratiche già esistenti che richiedevano di essere riviste e della definizione di nuovi prodotti che attualmente navigano in un vuoto legislativo.

La vera notizia in realtà è l’ennesimo caso di cattiva informazione dei media italiani, il tentativo di utilizzare una serie di parole chiave a fini strumentali per suscitare indignazione, l’assenza di senso critico e l’incapacità di analizzare l’imparzialità delle fonti.

La dealcolazione, eseguita con le tecniche e nei modi e limiti consentiti di una riduzione massima del 20% del contenuto alcolico di partenza, descritti dall’OIV per i vini generici, è stata introdotta a livello europeo nel 2009 (con il Reg 606/2009 e poi confermata con il Reg 1308/2013).

Le pratiche enologiche attualmente escludono l’aggiunta di acqua eccetto che nei casi (e nei limiti) in cui lo si richieda per specifiche necessità tecniche, come ad esempio nella preparazione di alcuni coadiuvanti enologici.

Allarmismo ingiustificato, quindi? Sì e no.

Il tema mi offre il destro – e già che ci sono anche il sinistro – per alcune considerazioni di carattere rigorosamente amatoriale, visto che non sono un esperto di enotecnica né della concettosa legislazione in materia di produzione enologica (“Visto il regolamento (UE) n. 1308/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 dicembre 2013, recante organizzazione  comune  dei mercati dei prodotti agricoli e che abroga i regolamenti  (CEE) n. 922/72, (CEE) n. 234/79, (CE) n.1037/2001 e (CE) n.  1234/2007  del Consiglio; Visto in particolare la parte II, titolo II, capo I, sezione 2, del citato  regolamento (UE)  n.1308/2013, recante norme   sulle denominazioni di origine, le indicazioni geografiche e le menzioni tradizionali nel settore vitivinicolo; Visto  il  regolamento (CE)  n.  607/2009  della Commissione e successive  modifiche, recante modalità   di   applicazione del regolamento (CE) n. 479/2008 del Consiglio per  quanto riguarda le denominazioni di origine protette e le indicazioni  geografiche protette” eccetera eccetera).

Per cominciare sono con Fernando Pardini, direttore di questo sito acquabuonesco, quando scrive:

Proprio qualche giorno fa nel mio ultimo pezzo individuavo nella “deriva alcolica” di molti vini prodotti alle nostre latitudini una delle reali emergenze con cui si deve (e si dovrà) misurare il viticoltore della contemporaneità, ma è anche vero che auspicavo gli eventuali rimedi potessero provenire dal vigneto e dalle pratiche agronomiche messe in atto. Da circostanze cioè che partono dalla scelta dei siti di produzione giù giù fino alla decisione dell’epoca vendemmiale, con tutti i passaggi del caso. La battaglia si vince sul campo, pensavo io.

Eppure la commissione europea ha còlto alla sua maniera questi intendimenti, e lo ha fatto tagliando la testa al toro: ponendo al vaglio dei decisori la possibilità di estendere la pratica della dealcolazione totale a tutti i vini IgT, quella parziale a tutti i vini Doc e Docg. Semplice no?

C’è solo un particolare, che così facendo si va a spostare fino alla dispersione il concetto di vino, assimilandolo di fatto a una BEVANDA dai forti connotati industriali, dal momento in cui a gridar vittoria sarà il pieno controllo dei processi, altro che la naturalità. (…)

Bene, fate come volete, procedete pure, ma vorrei fossero esaudite queste piccole richieste:

1) per ogni prodotto dealcolato discendente dall’uva corra l’obbligo di riportare in etichetta e in bella vista il termine ‘BEVANDA DEALCOLATA’, e sempre in etichetta non sia possibile fare uso alcuno della parola VINO;

2) ciascun comune, borgo, paese, frazione rientrante in una denominazione di origine che accetterà tale pratica nel suo disciplinare di produzione, sia obbligato a scrivere, in tutti cartelli segnalatori che annunciano il paese, la frazione, il borgo e il comune, la frasetta  ‘COMUNE DEALCOLATO’”.

Ciò è indubitabilmente vero per le tecniche che abbattono il volume d’alcol in maniera invasiva. Per esempio utilizzando, mi dicono,  “filtrazioni a membrane”. I pochissimi raffronti che ho potuto fare tra un vino a – poniamo – 15 gradi e lo stesso vino portato a 12,5 o 13 hanno mostrato un’evidenza: generato con quell’equilibrio complessivo tra le varie componenti, il vino di partenza aveva una sua forma; grassoccia, magari, ma una sua forma naturale. Portato a 12,5 gradi qualcosa stonava. La sensazione è che ci fosse qualcosa di fuori sesto. Non saprei dirlo diversamente, e del resto due sole esperienze non generano certo un rilievo statistico probante.

Diverso mi appare il caso di un vino proveniente da un’aggiunta di acqua al mosto in fermentazione. Scrivo aggiunta perché termini come allungamento o annacquamento suonano da subito una truffa per propinare un liquido adulterato. Un vino nato da un’aggiunta di acqua al mosto in fermentazione si forma ab origine con una sua architettura naturale: fondazioni, pavimenti, pareti, tetto, seguono una planimetria che ha una sua logica interna.

Ho bevuto almeno tre o quattro vini nati con questa tecnica. Per ovvi motivi non posso dare altri dettagli, essendo al momento una pratica del tutto illegale. Uno in particolare, un Dolcetto firmato da un produttore celebre, era una vera delizia. Da un’annata caldissima che aveva dato altrove rossi pesanti, brucianti, incapaci di dare piacere.

Fossi malizioso potrei annotare a margine che di vini prodotti così ne ho bevuto tre o quattro, a mia conoscenza: non è affatto escluso che ne abbia – che ne abbiamo tutti – bevuti molti di più senza saperlo. Certo, il buon senso induce pure gli ignoranti come me a considerarla una risorsa da impiegare solo in determinate condizioni, e non come rimedio universale.

Mi sento quindi di sposare una tesi moderata: se si dealcola il vino, è lecito nutrire dubbi; se si usa acqua in fermentazione si può essere meno drastici e anzi vederlo come uno strumento – tra i tanti – per fare buon vino. Pare peraltro che l’acqua debba in ogni caso essere “vegetativa”, cioè provenire dalle uve; il che mi sembra controintuitivo, ma chi sono io per capirci qualcosa?

Sempre Gily chiosa con saggezza: “tecnicamente ha senso, anche se sarebbe meglio non arrivarci. Ma se autorizzi la pratica di aggiungere acqua il rischio è che non controlli più nulla e apri le porte alla sofisticazione.” Vero, rischio assai reale. Nella mia ingenuità io comunque una fiche sul tavolo della chiamiamola acquatura ce la butterei.

Annoto in chiusura che in altre nazioni, per esempio negli Stati Uniti (California) sembra sia lecito aggiungere acqua in fermentazione fino al 7% “come solvente per additivi quali lieviti selezionati, anidride solforosa” eccetera. Nessuno si è lamentato.

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Fabio Rizzari

Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

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Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

2 COMMENTS

  1. Grazie Fabio per la citazione, desidero solo precisare che l’articolo su Millevigne non è mio ma della direttrice scientifica di Millevigne Alessandra Biondi Bartolini.

  2. Grazie Maurizio, annoto a margine che nel testo il post citato non viene attribuito a te: “Come ci informa il sempre prezioso Maurizio Gily, riprendendo un recente articolo apparso su Millevigne”. Mi rendo conto che quel “riprendendo” possa essere equivocato, ma si riferisce a te Maurizio (non a me che cito).
    Comunque chiedo agli amici dell’Acquabuona di rendere più chiaro il tutto.

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