I Pinot di Stroblhof, dal Bianco Strahler al Nero Pigeno e Riserva

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Sulle colline più alte di Appiano, nella frazione San Michele, ai piedi del massiccio della Mendola, intorno ai 520 metri di quota, la tradizione alberghiera ed enologica di Stroblhof si perde indietro nei secoli. L’antica torre residenziale Alt-Firmian – di cui oggi rimangono solo le rovine, di proprietà dei cosiddetti Firmiani, i canonici di Trento (gli stessi di Castel Firmiano, oggi sede del Museo MMM Firmian) – risale al 1325. Il successivo maso fu dapprima chiamato Baumannhof, quindi rinominato Englarhof e infine Stroblhof per motivi tuttora ignoti.

Dal 1872 Appiano divenne stazione di cura e un decennio dopo il maso agricolo un luogo di ospitalità con l’annessa locanda, celebre per la storica ghiacciaia che permetteva la conservazione naturale dei prodotti alimentari, per l’inaugurazione del poligono di tiro reale-imperiale, avvenuta nel 1896 (l’attività decadde solo nel secondo dopoguerra), e più in generale per la proverbiale accoglienza della famiglia Ausserer, proprietaria dal 1836, tra feste campestri ed eventi sportivi e culturali.

Negli anni settanta il giovane Josef Hanni-Ausserer, che aveva ereditato il maso, fece costruire la piscina e due campi da tennis, e contemporaneamente rilanciò la produzione enologica, che già contava su una gloriosa tradizione risalente alla metà del XIX secolo. «A quell’epoca, sotto la dominazione austriaca, il fratello dell’imperatore Franz Josef aveva favorito la diffusione dei vini bianchi nel Südtirol, che al tempo quasi non esistevano, c’erano solo rossi.

Nel XX secolo molti bianchi erano spariti e lo stesso chardonnay è stato piantato nel 1990», mi racconta Andreas Nicolussi-Leck, genero di Josef (la moglie Rosemarie Hanni-Ausserer gestisce il ristorante e l’hotel). Andreas ha promosso la definitiva affermazione dell’azienda, che dirige dal 1994, sul piano vitivinicolo, costruendo una cantina moderna e tecnologica perfettamente inscritta nell’ambiente circostante, e piantando tra il 1994 e il 1996 il pinot nero in una terra che da più di un secolo produceva un bianco di nome Strahler. «Le vigne più vecchie con più di settant’anni sono state piantate da Franz Ausserer, lo zio di Josef», continua Andreas. «Lo Strahler, prodotto per la prima volta nel 1848, è sempre stato un uvaggio di uve bianche, un uvaggio di vigna beninteso, non una cuvée di cantina. Quello che produceva mio suocero Josef aveva dentro, oltre al pinot bianco, anche del pinot grigio, del riesling, del moscato giallo, tutti in piccole quantità, forse del sylvaner, senz’altro del gewürztraminer, che ho tolto nel 2008. Purtroppo non sono riuscito a lavorare con lui: è scomparso nel 1993 all’età di cinquantanove anni, mia moglie ne aveva ventidue. È stato un vero peccato, aveva una grande personalità».

Lo Strahler prodotto oggi da Andreas prevede un 90% di pinot bianco e un 10% di chardonnay e pinot grigio. Le uve arrivano dall’omonima vigna ubicata allo Stroblhof a 520 metri di altitudine su terreno rosso dagli strati di porfido e calce, con una parte proveniente dalla zona Sattel, sempre nel comune di Appiano, a 450 metri di quota su terreno ghiaioso-calcareo. Il totale dell’estensione dei due vigneti è di due ettari e mezzo. Prima della vinificazione, le uve vengono lasciate riposare nella grotta dell’antica ghiacciaia. Fermentazione in botti di rovere dai 15 ai 25 ettolitri a temperatura controllata, dove il vino matura sui proprio lieviti per circa sette mesi.

L’Alto Adige Pinot Bianco Strahler 2019 ha colore paglierino limpido e altrettanta chiarezza espositiva, con eleganti profumi floreali resi più sfumati da sentori di agrumi (foglia di limone) e di pietra, e con un palato dal sorso polposo e fresco, strutturato quanto agile, con sapidità crescente e acidità citrina.

La mano felice di Andreas sui bianchi è visibile anche nell’Alto Adige Chardonnay Schwarzhaus 2019, prodotto dal 1993, proveniente da una parcella di seimila metri quadri nell’omonima zona tra Appiano e Cornaiano, terreni calcareo-ghiaiosi alle altitudini più basse dell’azienda (350 metri): ha colore paglierino brillante, naso fragrante, poco incline, alle seduzioni del legno (la vinificazione e la maturazione ricalcano quelli del Pinot Bianco), palato pieno e tonico, floreale-agrumato, saporito, dove senti il grasso dello chardonnay sciogliersi in un afflato minerale-pietroso. «Già in affitto in precedenza, è stato acquistato nel 1999. Mio suocero l’ha piantato nei primi anni novanta, io ho cambiato i cloni altoatesini, che facevano grappoli molto grandi, con quelli francesi (nove anni fa per il pinot bianco, cinque per lo chardonnay) che hanno rese più basse della metà».

O come nel fragrante Alto Adige Sauvignon Nico 2019, prodotto dal 2003, da uve di due distinti appezzamenti a Caldaro su terreni calcarei per un totale di seimila metri quadrati a 550 metri di quota. «Le vigne appartengono a mio fratello, che è direttore di banca, e a sua moglie, che fa l’insegnante. Le viti hanno circa venticinque anni e sono state tra le prime a essere piantate a guyot anziché a pergola. I cloni sono francesi». Colore intenso, naso di sambuco, foglia di pomodoro, menta, ruta, elementi minerali, bocca succosa, tonica, vibrante, incisiva, persistente. Che sapore e che allungo!

«7 grammi di acidità e 0,3 di zuccheri. Per me l’annata 2019 è una delle più belle sia per la freschezza, sia per la mineralità. Anche il Pinot Nero è così».

Arriviamo così al vino portabandiera di questa storica azienda altoatesina, una delle più antiche della regione, che già serviva questo rosso alla fine dell’Ottocento ai clienti della trattoria. Dei sei ettari aziendali (di cui cinque e mezzo di proprietà), tre e mezzo sono dedicate al pinot nero e solo quattromila metri quadri non sono allo Stroblhof.

C’è un Pinot Nero in versione rosa prodotto dal 2013 che fa solo acciaio. Si chiama Pinot Rosé, ha colore buccia di cipolla e il 2019 si distingue per la piacevolezza e la nervosità acida.

Il Pigeno (pronuncia “pighenò”), che prende il nome dal luogo d’origine ed è l’erede moderno dello storico Pinot Nero della famiglia, viene prodotto dalle viti più giovani (quindici anni). «Fa dodici mesi di barrique, di cui solo il 20% nuove, poi sei mesi di botte grande. Prima lo facevo maturare solo nelle botti di cinque o sei anni, ora non più. Quando sono venuto qui nel 1994, dopo l’esperienza come direttore di Erste+Neue, e fino al 1999, vendemmiavamo il pinot nero a ottobre, talvolta anche a fine ottobre, mentre dal 2000 lo raccogliamo a metà settembre».

L’Alto Adige Pinot Nero Pigeno 2018, assaggiato in anteprima, ha colore rubino intenso, sentori di mirtillo e altri piccoli frutti di bosco, un carattere varietale, succoso, preciso, ricamato nel tannino, con bella trazione gustativa, e tanto sapore che fa capolino nel finale. «È stata un’annata molto calda ma positiva per quest’uva, abbiamo vendemmiato dal 10 al 20 settembre. È molto difficile scegliere il legno giusto per il pinot nero. E le botti devi ordinarle prima dell’annata».

La produzione dell’Alto Adige Pinot Nero Pigeno 2017 è stata funestato dalla gelata di aprile. «Abbiamo perso un mese di vita della vigna e abbiamo dovuto raccogliere per forza a ottobre. Ho fatto tremila bottiglie in meno della Riserva. È comunque uscita un’annata fine, tipica, non grande». Ha colore rubino luminoso, naso sussurrato, tutto in sottrazione, piccoli frutti e fieno, palato tonico, sottile, trasparente, dal tannino puntuto e di bella vibrazione Comincia con un andante e finisce in crescendo. Finale persistente di foglia di tè e note balsamiche.

L’Alto Adige Pinot Nero Pigeno 2015 ha colore rubino intenso, naso sulle prime ancora un po’ in riduzione, che si stempera strada facendo, lasciando spazio a un profilo di tempra e carattere. Il palato ha un tonico incedere di taglio mentolato-balsamico, belle trasparenze gustative, sapori di lamponi e ciliegia, nuance ancora balsamiche.

«Il pinot nero va allevato e prodotto nelle zone alte ai piedi della montagna».

La Riserva, prodotta dal 1970 e proveniente dalle vigne più vecchie, matura per dodici mesi in barrique, di cui il 40% nuove, e per otto mesi in botte grande.

L’Alto Adige Pinot Nero Riserva 2018 ha un colore limpido e scintillante, profumi di frutti di bosco e sottobosco balsamico, palato strutturato, succoso, tonico, pepato, vibrante

L’Alto Adige Pinot Nero Riserva 2017 ha colore rubino di bella trasparenza, con un naso che vira al florale del nebbiolo, al fogliame, alle note profonde del bosco. Il palato è pieno, pepato, solido e fluido, di spalla e scioltezza, con un tannino rigoroso che spinge, si distende e persiste. «Ho declassato quattromila metri quadri di vigna per metterli nel Pigeno».

L’Alto Adige Pinot Nero Riserva 2013 ha colore rubino trasparente e un notevole olfatto arioso-evoluto di terra, terriccio, tartufo e foglia di tè che segnano uno stacco rispetto alle annate più recenti. Il sorso è fitto di trasparenze balsamiche, l’espressione è succosa e persistente, il tannino si accende.

L’Alto Adige Pinot Nero Riserva 2010 ha colore rubino intenso, sentori di liquirizia, input terrosi, note balsamiche, un palato portante che dispensa tonicità, freschezza, rotondità e contrasto.

I Pinot Nero di Andreas Nicolussi-Leck – produttore il cui elegante savoir-faire sembra tradursi nello stile dei suoi vini, bianchi compresi – sono ben caratterizzati, deliziosi, intriganti.

«Nel 2023, a distanza di trent’anni dalla sua scomparsa, uscirà una riserva speciale di Pinot Nero 2019 in onore di mio suocero. È la selezione di una selezione e uscirà dopo la Riserva, che viene commercializzata a distanza di tre anni».

Il ristorante Stroblhof è chiuso, riaprirà il giorno successivo dopo l’ultima forzata chiusura pandemica. Andiamo allora a pranzo al Zur Rose di Appiano, un luogo che non ha bisogno di presentazioni. È il 4 di maggio, mangiamo all’aperto, apriamo una bottiglia di Sylvaner 2019 Kuenhof, chiacchieriamo amabilmente. Il peggio sembra quasi passato.

Le fotografie sono dell’autore

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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