È tempo. W il Rosso di Montalcino!

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Qualcuno potrebbe obiettare che io arrivi esimo, fra i sostenitori del Rosso di Montalcino. Ma il mio eventuale ritardo, che poi tale non è, ha inteso ben soppesare, sulla bilancia dei ragionamenti, le evoluzioni accorse nel frattempo in seno alla tipologia, e quindi attendere la breccia giusta per poter finalmente sentenziare.

Ebbene sì, è arrivato il tempo di sdoganare definitivamente i Rossi di Montalcino dagli alvei sottomessi legati alla presenza ingombrante del fratello maggiore Brunello. Ma non perché sia una considerazione talmente ovvia da valere oggi così come valeva ieri o l’altro ieri. E neanche perché qualcuno si è alzato la mattina e ha deciso che da qui in avanti sarà così. Il fatto è che le ultime stagioni hanno mostrato in modo eloquentemente generalizzato che le cose (i vini) stanno prendendo una certa piega, e quella piega è nel verso giusto.  C’è una costruzione a monte insomma, un pensiero condiviso, figlio della consapevolezza e di un tempo che finalmente ha portato i produttori a ragionare. Se necessario, a cambiare direzione.

Bicchieri alla mano, il Rosso di Montalcino non rappresenta più la seconda scelta (terza, quarta) elaborata con la mano sinistra, spesso sbadata, prodotta da chi nella testa e fors’anche nel cuore ha solo e soltanto il Brunello. Non tanto per la accresciuta perizia tecnica, o per la comprensibile esigenza di differenziare le produzioni su diversi target, che non sono certo una novità, quanto perché la sensibilità interpretativa di una bella fetta di produttori ilcinesi è ormai diventata matura per comprendere che un vino a base sangiovese che se ne esca sui mercati in una fase di giovanile fragranza e che discenda da un territorio chiamato Montalcino non si può più permettere di essere un vino a caso, per caso.  L’incremento della qualità si è fatto un obbligo e poi, diciamolo, non è forse storicamente provato che i migliori rossi del mondo, anche in un’ottica di potenziale evolutivo,  si fanno un paio di anni di legno, uno di bottiglia e poi via sul mercato?

Poter apprezzare, ad alto livello di dignità organolettica, la fragranza di un Sangiovese giovane che porti le stimmate del grande vino di territorio al pari di un Brunello e senza alcun timore reverenziale, non ha prezzo: è come riportare alla luce una parte del tutto, fino ad ora rimasta inspiegabilmente nascosta (salvo le immancabili eccezioni legate alla comprovata lungimiranza dei singoli).

A vincere la versatilità, certo, e il gesto istintivo di una beva disinvolta, ma anche un minor conflitto con il tenore alcolico – minaccia fra le minacce-,  stanti vendemmie un pelino anticipate a recuperare freschezza più che concentrazione di materia. E poi, vivaddio, la crescente volontà di disegnare vini più aerei e slanciati, che fondino su integrità di frutto e ritmo gustativo le loro doti salienti, quelle tanto attese.

Di più, con un bilanciamento nei toni, una qualità tannica e una forza espressiva che in più di un caso lascia presagire una lodevole parabola vitale, senza per questo aver stazionato lungamente in cantina come fa il Brunello, che non di rado giunge alla meta dei mercati già un po’ “stancotto” e arruffato, e non sono mica dei casi isolati.

La concomitanza di un millesimo coi fiocchi come il 2019 ha senz’altro contribuito ad illuminare a giorno una sensazione sempre più diffusa, ma fra gli stessi 2018 si annidano conseguimenti importanti. Qualche nome? Poggio di Sotto, Biondi Santi e Stella di Campalto, ad esempio. Mi sembra di percepire un mormorio fra il pubblico: “sì, son buoni tutti, e dove starebbe la novità?“.

Qualche altro nome? Baricci, Le Chiuse, Le Ragnaie, Sesti… Arisento il solito mormorio: ” Dicci qualcosa di nuovo!!!”.

E allora se vi dicessi Il Colle, La Palazzetta, Pietra, Visconti, San Giorgio, Collemattoni, Talenti, Costanti, Armilla, Capanna, Caparzo, Col d’Orcia, Corte dei Venti, Col di Lamo, Donatella Cinelli Colombini, Canalicchio di Sopra, Caprili, Fattoi, Collelceto, Fonterenza, Fornacina, Il Marroneto, Colleoni, Il Poggione, La Fortuna, Il Paradiso di Manfredi, Fattoria del Pino, La Gerla, La Magia, La Togata, Le Potazzine, Sanlorenzo, Pietroso, Pian dell’Orino, Mastrojanni, Lisini, Piancornello, Salvioni, Patrizia Cencioni, Ridolfi, San Carlo, San Polo, Sassodisole, Terre Nere, Uccelliera, Val di Suga e Ventolaio il quadro d’insieme assumerebbe un’altra valenza?

Io dico di sì, e aggiungo pure che in compagnia dei “nuovi” Rossi di Montalcino mi sono tanto divertito, con la noia lontana mille miglia da qui.

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Contributi fotografici dell’autore

FERNANDO PARDINI

2 COMMENTS

  1. Buon Caro Fernando
    Guarda che il rosso di Montalcino…. lo facevano gli Ilcinesi…non lo facevano i consumatori ne chi scriveva di vino che il più delle volte
    preferivano tralasciare i commenti…molto giustamente. Nascono le UGA nel chianti.E forse a Montalcino matura qualcosa di interessante.Mi piacerebbe vivere abbastanza per vedere il territorio Ilcinese suddiviso come nel Montraschet ..filari
    Sempre interessante leggerti
    Pietro

  2. Hai ragione, Pietro. Il Rosso lo han sempre fatto loro, non altri. Ma nel nome del dio brunello, un pelino più remunerativo (!), spesso si sacrificava il rosso sull’altare del fratello maggiore. Salvo qualche illuminato. Quanto alla zonazione, circostanza buona pulita e giusta, ci sta che le nostre vite siano insufficienti a vedere se accadrà 🙂

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