Essere vignaioli a Carema. Intervista a Rudy Rovano – Chiussuma Vini

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Due ettari e mezzo a dir tanto, in un territorio tra i più difficili e incantevoli: i terrazzamenti di Carema, alto Canavese, al confine con la Valle d’Aosta. Non hanno un sito internet, producono da pochi anni un vino che fa già molto parlare di sé, sono tra i protagonisti della nuova ondata di viticoltori del Carema. Stiamo parlando Chiussuma Vini, piccolo collettivo formato da Rudy Rovano, Alessandra Perona e Matteo Ravera Chion. Il nome Chiussuma è preso dal nome del torrente che scende ai margini dei loro vigneti.

Proviamo a conoscerli attraverso un’intervista telefonica a Rudy Rovano, per apprendere la lucida follia con la quale hanno deciso di investire le loro vite nell’idea di fare vino sulle rocce di Carema. Quando riesco a raggiungere Rudy al telefono è in vigna a controllare i danni dell’ultima grandinata (fortunatamente non è stato un flagello).

-Rudy, ti disturbo? Se è un momento particolare…
-No non ti preoccupare; qua posso far poco, avessi nelle mani l’effetto cicatrizzante… ma non ce l’ho! Quindi parliamo che intanto io salgo a controllare!

-Cerchiamo di fare una cosa un po’ diversa: per farvi conoscere proviamo a impostare l’intervista come se fosse una serie di materie, in una ipotetica e scherzosa prova di maturità.
-Va bene! (e intanto si sente il respiro “da mulattiera”)

Storia

-Parliamo un po’ della vostra storia: chi siete, da dove venite, cos’è che vi ha messo la scintilla di fare il vino, e perché proprio in questo territorio così particolare e difficile?
-Matteo lavorava già nel campo del vino, ha un’azienda nel Canavese, produce Erbaluce sulla serra morenica d’Ivrea. Io invece provengo sì da una famiglia con trascorsi agricoli, ma nella vita lavoro in una azienda del campo dei legnami, Alessandra è mia moglie, e oggi è l’unica che si dedica al 100% a Chiussuma. Abbiamo iniziato nel 2016, con dei signori che vendevano le vigne, ci siamo detti: proviamo! Bello eh, ma qui gli occhi vanno più veloci delle braccia! (ride di questa frase, che è un po’ il suo motto). Siamo partiti da 2 ettari da recuperare, più alcune vigne già produttive. Nel 2016 abbiamo fatto 1000 bottiglie di Carema, che essendo un vino da lungo invecchiamento, ha dovuto attendere 3 anni per esser messo in commercio. È un bell’impegno dal punto di vista economico.

Storia antica

-Il territorio di Carema ha una storia travagliata nell’ultimo secolo, fatta di conquiste, abbandoni, rinascite… Perché si faceva vino quassù, in pendii che sembrano impossibili? Cosa dava in più la montagna?

-Qua ci sono testimonianze di viticoltura che risalgono all’epoca pre-romana. Per venire a tempi più recenti, abbiamo una testimonianza del 1595, dell’archiatra del papa Andrea Bacci, che nel libro De naturali vinorum historia parla dei vini di Carema come vini degni delle mense dei Savoia e di quelle pontificie. Questa era terra di passaggio, c’erano dazi, e qui si instauravano attività su beni commerciabili. E in più, il territorio di Carema non ha in pratica pianura, era giocoforza concentrarsi verso la montagna.

Storia moderna e contemporanea

-Cosa differenzia Carema dalle zone più a est dell’Alto Piemonte, dove l’industria tessile del biellese comportò un forte abbandono dei vigneti durante il Novecento?

-Alcune fonti dicono che a Carema c’erano 350 ettari vitati, ma credo sia un dato sovrastimato che forse considerava anche Pont-Saint-Martin. Magari gli ettari reali erano circa 120; sicuramente, il dopoguerra e il boom industriale hanno pesato molto, siamo arrivati al minimo storico di 17 ettari per l’intera denominazione (!). Oggi siamo risaliti faticosa mente a 23 ettari circa in totale.

-Perché qua la forma di allevamento è la pergola?

-Perché ti permette di occupare più superficie in modo aereo (hai una maggiore espansione della superficie fogliare). Poi sotto le pergole, quando non si davano prodotti, si riusciva a fare il fieno per le bestie, magari nei terrazzi più ampi si riusciva a piantare patate e alberi da frutto… Il vino migliore, il nebbiolo delle esposizioni a sud, si vendeva; il vino base (vitigni più produttivi come il neretto, per esempio), si usava per l’autoconsumo.
Poi con l’industrializzazione è arrivato l’abbandono, perché questa è una viticoltura difficile – bada però che non mi piace chiamarla eroica, gli eroi sono altri secondo me! – dicevo l’industrializzazione ha portato all’abbandono delle vigne più in alto, quelle più belle per esposizione ma più difficili. Oggi le vigne sono nella parte bassa di Carema. Pensa che nelle parti alte ci sono muri a secco alti 4-5 metri. E quando vengono giù, è andata, non è economicamente fattibile riprenderli. Per di più tutte le aziende qui sono piccole, non possono accollarsi lavori troppo onerosi, tra l’altro senza accessi ai fondi di supporto.

Geologia

-Le vostre vigne hanno una matrice territoriale omogenea o cambiano da vigna a vigna? È vero che nelle vigne più scoscese e più in alto la terra veniva portata dal fondovalle?

-Questa parte dell’Alto Piemonte è una zona in cui due placche geologiche si intersecano; nelle vigne si trovano quindi rocce metamorfiche, micascisti, granitoidi, gneiss, oltre a massi erratici. Ma la parte geologica incide in modo minimale sul suolo da cui attingono le viti: le vigne basse sopra il borgo di Carema sono composte da detriti di conoide e materiali alluvionali. Le vigne alte sono invece in prevalenza tutti suoli artificiali…
-Artificiali?
-Sì, nel senso che sono vigne letteralmente tirate su con muretti a secco riempiti con terra portata dal fondovalle, fertilizzata con il letame animale. Una volta funzionava così: d’inverno gli uomini costruivano i muri in pietra, poi a primavera andavano a lavorare in Francia, e le donne proseguivano l’opera portando su la terra dal fondovalle, a suon di gerle. Un lavoro incredibile. Pensa che per fertilizzare le vigne alte, difficili da raggiungere (figuriamoci con una gerla di letame in spalla) alcuni costruivano un piccolo riparo in vigna e ci facevano vivere l’asino, in modo che producesse il letame già sul posto.

Chimica

-Anche in questa parte dell’Alto Piemonte la matrice del terreno è acida? Che differenze notate tra il nebbiolo di Carema e quello di Ghemme e Gattinara? Quali sono secondo voi le specificità di Carema?

-In realtà i nostri terreni non sono acidi come nella zona di Ghemme o Gattinara; sono suoli sub-acidi, con pH che vanno da 5,5 a 6, mentre i suoli acidi morenici di Ghemme vanno da 4,5 a 5. Il suolo è ricostruito nel corso dei secoli, nel primo metro di profondità il colore della terra cambia ogni due passi. Dipende da mille fattori: dove andavano a prendere la terra in un certo anno, che detriti aveva lasciato il fiume, quanto letame è stato messo negli anni…

Matematica: divisioni

– Si sa che nei terreni agricoli di zone come la vostra la proprietà è molto frazionata. Quanti atti notarili occorre fare a Carema per raggranellare un ettaro di terreni? 🙂

-Non mi ci far pensare! Per 1,7 ettari che abbiamo comprato, abbiamo dovuto contattare 17 proprietari! Qua il terreno è superfrazionato. Devo dire però che il fatto che noi non siamo originari di Carema ci ha favorito.
-In che senso?
-Sai come funzionano le cose nei paesini di montagna, ci sono le vecchie ruggini, magari uno sgarbo di generazioni passate fa sì che la tua famiglia non venda la terra alla mia… “Mi a col lì ni venderò mai gnente!” Venendo da fuori la cosa è stata più semplice. E poi quando i vecchi del paese vedono la vigna rimessa in sesto sono molto contenti.

Ampelografia

– Solo nebbiolo per il vostro carema, giusto? Storicamente nei terrazzamenti di Carema sono presenti anche altri vitigni?

-Nel nostro Carema 2016, la prima annata, c’era un 10% di neretto, poi dal 2017 abbiamo fatto un nebbiolo in purezza. Vinifichiamo vigneti analoghi facendo microvinificazioni separate per conoscere la risposta dei diversi terreni, in ottica futura. Il neretto dà zero struttura ma tanti profumi, dal 2019 lo impieghiamo per il secondo vino, il Farinèl (che significa “birichino”), 80% nebbiolo di vigne giovani e 20% di neretto, lo vinifichiamo in modo che sia un vino da bere da giovane (4-5 giorni di macerazione per prendere i profumi ma non i tannini), lo imbottigliamo nel gennaio successivo alla vendemmia, ci aiuta per la cassa.
Il Carema invece lo raccogliamo a metà ottobre e fermenta 13-15 giorni in acciaio, poi fa 2 mesi di riposo per sedimentare e a metà gennaio passa in vecchi tonneaux per un anno ad affinarsi. Infine fa 6-8 mesi in bottiglia.

Arte e storia futura

-Parliamo degli elementi più caratteristici delle vigne di Carema, i pilùn (piloni troncoconici in pietra disposti a sorreggere le pergole o toppìe). Dalle vostre ultime foto si vede che ne avete impiantati di nuovi. Un segno importante per la montagna… 

-Diciamo che abbiamo fatto un discorso incentrato sulla praticità: nelle vigne dove già c’erano li abbiamo mantenuti, anche in quei casi in cui non c’erano più le viti. Nei casi in cui invece non c’erano più piloni né viti, abbiamo preferito cambiare il sesto d’impianto: anziché piloni e pergola, abbiamo messo il filare, che ha una gestione meno onerosa della toppìa. Tanto per capirsi, costruire il filare costa 35.000 euro/ettaro, mentre la pergola costa 70.000 euro a ettaro. Per una realtà piccola come la nostra è una differenza abissale. Certo, nel filare c’è meno poesia ma… Capisci i termini in gioco.

-I piloni hanno anche una funzione di regolazione termica, giusto?
-La vulgata è che servono per catturare il calore del giorno e a rilasciarlo di notte per contrastare le gelate… La realtà non è così. Storicamente, una volta la pergola era tutta di legno, anche nell’elemento verticale di sostegno: i castagni si trovavano in loco, sopra le vigne. Ma il castagno, anche se lentamente, si consuma nella parte a contatto con la terra, e la pergola negli anni tendeva a abbassarsi, così che diventava difficile lavorare sotto. Per questo nascono i piloni, oltre che per togliere pietre dalla terra. Il vero riscaldamento lo fa il muro a secco, che ha una massa molto più grande del pilone. E questa cosa genera varie problematiche da noi: il muro caldo, in caso di acquazzone, fa evaporare una gran quantità di umidità, che favorisce oidio, tignoletta della vite, peronospora…

Materiali

– Questi nuovi piloni, se non sbaglio, a differenza dei tradizionali che sono in calce e pietre, sono in cemento, con il capitello in pietra. Che scelte avete effettuato quando avete deciso di farne di nuovi?Avete preparato delle casseforme ad hoc per realizzarli? O sono fatti uno a uno in loco? 

-I piloni nuovi che vedi in alcune foto sono in una vecchia vigna a pergola caremese: erano bassissimi, lavorarci sotto era un inferno, inoltre erano ormai instabili. E così li abbiamo rifatti nuovi in cemento, usando delle casseforme. Pensiamo che quando fai una cosa nuova, è bene che si veda che è nuova, non ci interessava fare una imitazione dei vecchi. Poi col tempo e gli agenti atmosferici, si uniformeranno al vecchio.

Tradizioni, innovazioni e… amministrazioni

– Come vi siete misurati con il passato del luogo per cercare di andare in modo armonico verso il futuro?

-Abbiamo un approccio ragionato: come ti dicevo, nelle vigne che recuperiamo, se sono rimasti i piloni o le pergole, manteniamo il sesto a pergola. Se invece non rimane niente, mettiamo il filare, che si gestisce in modo più economico e razionale. Sarebbe bello ripristinare le pergole dappertutto ma per noi non è economicamente sostenibile.
Stessa cosa per i muri a secco: i muri crollati li ritiriamo su nei limiti del possibile. Ma quelli da 4-5 metri di altezza non riusciamo… E non abbiamo fondi che ci supportino. Il nostro è un po’ un territorio-cenerentola. In Val d’Aosta, per fare un esempio, i muri a secco vengono finanziati per 147 euro a metro quadro. In Liguria danno 110 euro. In Piemonte invece non c’è un finanziamento specifico per questa viticoltura. Per le amministrazioni, il Piemonte enologico è principalmente Langa e poco altro. Di sicuro non Carema. In più la pergola non è tabellata nei bandi dei finanziamenti che erogano il 50% per le ristrutturazioni, che sono calcolati sulle vigne di pianura. Il lavoro in proprio in questi bandi non è né contemplato né finanziato, mentre qui facciamo praticamente tutto in proprio. Da altre parti il lavoro in proprio è finanziato come quello conto terzi. Per di più per i bandi hai tempistiche di realizzazione contingentate altrimenti non ti erogano i finanziamenti. Capisci che se lavori da solo non ce la fai. Finisce che prendi il 20% al massimo, senza nessuna sicurezza. Qui sai che devi fare tutto con le tue forze.

Enologia

Che tipo di fermentazione fa il vostro nebbiolo? Affinamento? Come lo definireste il vostro vino: vino estremo, vino artigianale, vino…vino? :-)

-Uso l’espressione “vino ragionato”, non mi piacciono le etichette e i talebanismi. Cerco di fare un vino onesto, nel senso che se riesco lavoro con solo rame e zolfo, ma se arriva un’annata difficile e devo usare un sistemico per salvare l’uva, te lo dico. Non voglio impiccarmi con regole astratte. E poi, parliamoci chiaro: tendenzialmente, dal 10 agosto sospendiamo i trattamenti; se ho usato un sistemico, a metà ottobre cosa resta sull’uva? Niente.
In cantina siamo partiti usando i lieviti selezionati, prima di iniziare coi lieviti indigeni devi avere esperienza, non puoi rischiare a cuor leggero. Poi dal 2019 siamo passati ai lieviti indigeni, in modo graduale con il pied de cuve, insomma cerchiamo di usare la testa.
L’etichetta “naturale” non mi piace, c’è dietro di tutto, e poi è un certificato sul procedimento… non mi scalda più di tanto. Come non mi piacciono le estremizzazioni delle filosofie. Portiamo il letame su a spalla e con gli asini, non usiamo concimi di sintesi ma finisce lì, non perché non crediamo alla chimica.

Economia

– Si può vivere di agricoltura in montagna?

-Al momento ci serve il secondo lavoro. Puntiamo a arrivare alla piena indipendenza, ma per adesso è impossibile. Ipoteticamente vediamo possibile una piena autonomia attorno alle 10.000 bottiglie all’anno. Del resto, aveva ragione Madame de Rotschild, quando diceva che l’economicità di un’azienda vinicola arriva dopo i primi 200 anni! Passati quelli, è tutto in discesa!

Economia e comunicazione

-Il vostro Carema ha un prezzo che può sembrare molto alto: siamo attorno ai 44 euro la bottiglia. Come fate a comunicare a chi non conosce la viticoltura di montagna il lavoro e quindi il valore che c’è dentro ogni grappolo?

-Il prezzo è una questione spinosa. Il prezzo del nostro vino è quello che ci permette di esistere; più basso vorrebbe dire interrompere il nostro progetto. Il nebbiolo di Carema è unico rispetto agli altri, si distingue nelle sue peculiarità. Se sentono dire Barolo a 45 euro lo prendono, un Carema allo stesso prezzo no. È qua il problema!
Eppure, con la nostra filosofia di impatto ambientale leggero, per chi lo comprende, il nostro è più paragonabile a un Barolo da 70 euro. All’estero queste cose vengono comprese meglio. In USA è più accettato, lì abbiamo un’ottima risposta.

Marketing

– Addirittura vi voglio fare anche delle domande di marketing: quali pensate siano gli strumenti per promuovere la vostra attività? Credete nel fare squadra con i colleghi del territorio? Cosa ne pensate dei social?

-Con la pandemia abbiamo cambiato approccio alla promozione: cerchiamo contatti, mandiamo campioni, raccontiamo la nostra storia.. Prima li facevi venire in vigna, ed era più facile. In vigna il territorio e la storia lo capisci subito. È cambiato tutto. Adesso servono molto Instagram e il digitale. Abbiamo dovuto imparare a parlare di più, a scrivere di più… fortunatamente in questo 2021 qualcosa in più si muove. Sul fare squadra sono assai pessimista: in un contesto così piccolo come il nostro è veramente difficile. Non abbiamo i numeri di Ghemme o Gattinara, che in questo senso si muovono benissimo e riescono a organizzarsi in modo corale. Qui in questo contesto, chi ha un importatore se lo tiene stretto, i numeri sono talmente piccoli… Se un importatore ha a catalogo un Carema è già assai, non sta a prenderne di più. E questo frena molto il lavorare assieme tra produttori che hanno al massimo 3 ettari ciascuno.

Sogni

-A proposito, a sogni come siamo messi?

-C’è una vigna che è il mio sogno, oggi è un bosco. Vedessi com’è! Quello è il mio sogno, rivederci le viti. E ne abbiamo altri di sogni! Almeno 4000 metri da recuperare, ma gli occhi vedono più lungo di quel che possono le braccia!

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L’ASSAGGIO

Carema 2017 Chiussuma (14% alc. )

Rubino pieno e molto trasparente; le prime sensazioni avvicinando al naso il bicchiere sono sul versante della frutta; eloquentissima frutta rossa fresca, ciliegia durone con un fine sottofondo di speziatura nebbiolesca, echi di liquirizia molto fine.
Bocca compatta, tannino di ottima grana, ad oggi ancora ben vivi, che non asciugano ma che danno succosità al vino. Buona lunghezza.

Dopo molti minuti nel bicchiere il Chiussuma mostra un interessante scatto: l’opulenza fruttata si spoglia e si sublima in una nota finissima di speziatura quasi vespolinesca; l’animo alto-piemontese emerge in modo brillante e loquace, con indicibile finezza e pulizia.

Un nebbiolo ancora ragazzino, dunque, allegro, bevibile, di ottima struttura e un brillante futuro davanti a sé*.

*Come la memoria di un giorno perfetto quando eravamo bambini, ed era tutto lì, con l’immaginazione potevamo volare sul mondo. Quando mangiavamo le more, ci sbucciavamo i ginocchi al pallone, ci leccavamo il sangue dalle ferite, si cascava esausti dopo una corsa nei prati, come un giugno di mille anni fa che era finita appena la scuola e si saliva sull’albero del ciliegio. Io c’ero. Ecco, in questa bottiglia c’è questa gioventù sul ciliegio. Un barone rampante frugivoro, sereno, allegro, forte, ingenuo, creativo.

Intervista effettuata il 30 giugno 2021. Foto gentilmente concesse da Chiussuma Vini.

Chiussuma Vini

Via Ronco, 10010
Airale Superiore (TO)
tel. 3357251131
Instagram: chiussumavini

GALLERIA

 

Paolo Rossi

Paolo Rossi (p.rossi@acquabuona.it), versiliese, laureato in lettere, lavora a Milano nel campo editoriale. Nel vino e nel cibo ricerca il lato emozionale, libertario, creativo. Insegue costantemente la bottiglia perfetta, ben contento che la sua ricerca non sarà mai appagata.

2 COMMENTS

  1. Il solo nome Carema mi emoziona; custodisco in cantina una bottiglia del 1975 dei Produttori ed ho sempre cercato di procurarmi qualche bottiglia. Sapere di una nuova realtà produttiva in quel territorio così particolare e dal fascino davvero unico mi fa moltissimo piacere. Confesso però la mia perplessità quando ho letto del costo di una bottiglia. Credo che per una realtà nuova presentarsi sul mercato con questi costi non sia del tutto conveniente. Forse mi sbaglio, ma a quel prezzo posso trovare ad esempio bottiglie di Barbaresco uscite da Cantine di grande e meritato prestigio. Sono sempre alla ricerca di nuove realtà, ma un primo assaggio praticamente al buio sarebbe più invogliato di fronte a prezzi più ragionevoli.
    Una volta che il mercato mi avrà conosciuto e riconosciuto la mia qualità superiore, potrò anche richiedere prezzi più elevati.

  2. Ciao Angelo, il prezzo di 44 euro è quello che si ha se se acquista da un sito specializzato sui vini dell’Alto Piemonte. E’ possibile che con un ordine diretto quel prezzo scenda di qualche euro, ma secondo me non è quello il punto.
    Il punto è focalizzato bene già nelle parole di Rovano: vendere a un prezzo inferiore significherebbe semplicemente abbandonare il loro progetto. E’ una realtà di montagna, su piccolissimi appezzamenti, pochi ettari perché in quelle condizioni non puoi tenerle su le vigne. Tenerle su in senso letterale. Fare promozione vendendolo alla metà sarebbe intelligente? Già lo devi tener fermo 3 anni, poi lo vendi sottocosto per farti un nome… E poi quando hai un nome che fai, raddoppi? Tutti ti abbandonano. Secondo me non è un modello economico corretto. Se una certa parte di mercato non è pronta, fortunatamente un’altra parte lo è, è preparata e disposta a conoscere cosa c’è dentro una bottiglia fatta in quell’ambiente.
    Lo dice ancora Rovano: di un Barolo a 40 euro nessuno si stupisce. Ma pensa alle vigne di Barolo e alle vigne di Carema: seppur ripide, quelle di Barolo o Barbaresco sono meccanizzabili, ci puoi entrare col trattore. Qui vai di decespugliatore e trattamenti a spalla. Non è più sudato questo?
    I tempi sono maturi, anzi, o adesso o mai più; la rinascita del vino italiano è partita da idee visionarie considerate folli. Pensa a Manetti che esce dal Chianti Classico e tira fuori il Pergole Torte. Non è una splendida follia?
    Altra cosa: la cantina Produttori fa altri prezzi. Certo, ma hanno strutture economiche completamente diverse. Questo va tenuto in considerazione.
    L’importante è conoscerla una terra così, che è un miracolo di storia e di saper fare centenario. Io sono convinto di questo. Conoscere, viaggiare camminare nelle vigne, parlare con le persone, guardare le mani delle persone che il vino lo fanno.
    Un saluto
    Paolo

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