Dopo l’ultima bevuta ho sognato di essere immerso in una nebbia fatta di vino. Non ero in campagna, ma nel panorama anonimo di una città del centro d’Italia, trasfigurato dall’atmosfera opalescente di una regione molto più nordica. Respiravo del fumo, del vapore di vino, e la cosa mi sembrava del tutto naturale, come se stessi assaggiando o bevendo normalmente. In un altro sogno avrei potuto sognare un vino solido come una collina o un tronco d’albero – dopo tutto alcuni rossi non sono molto diversi – e che masticavo la terra o prendevo a morsi la corteccia di un pino.
Al risveglio non ci ho trovato niente di strano. Il che è strano, visto che come petizione di principio tutti, prima di raccontare a qualche malcapitato le nostre visioni notturne, premettiamo: “ho fatto un sogno stranissimo”. Mi è invece parsa una naturale conseguenza dell’esperienza del giorno precedente. Il piccolo gruppo degli accademici alterati si è riunito per il consueto pranzo prenatalizio, un’occasione per stappare bottiglie imprevedibili, che difatti non si riesce mai a prevedere.
Non si tratta però di stupire i sodali con etichette armene o lèttoni che nessuno conosce (“chi non sa far stupir vada alla striglia”). Si tratta di emozionarsi, di farsi portare dal vino da qualche altra parte, di viaggiare da fermi; e altre amenità sul tema “il giro del mondo e dei pianeti dentro una bottiglia”.
Armando e Monica hanno portato un inconcepibile Pommard Régis Rossignol Changargnier del 1961, ancora sulle sue gambe sebbene esile e stralunato come la figura di un Don Chisciotte. Giampaolo ha portato un Bonnezeaux (senza etichetta, quindi anonimo) del 1988 che sarebbe stato il bianco più stupefacente della tavolata, se non avesse avuto un conto aperto con il tappo. Io ho portato un raro Gevrey-Chambertin Clos Saint-Jacques 1996 Domaine Bartet (nome della madre di Bruno Clair, successivamente al 1998 etichettato come Bruno Clair e basta) che ha avuto un moto retrogrado: dapprima ossidato, sul marrone, si è via via ringiovanito con il passare del tempo, tipo Benjamin Button; rimanendo tuttavia ingessato dalla tipica e irredimibile acidità metallica dei ’96.
Ma tutti questi vini, pur di alta espressività e dai nomi altisonanti, sono apparsi quasi afasici rispetto all’epifania (con un paio di settimane d’anticipo) delle due divinità della tavola. Due rossi che non avrebbero potuto essere più diversi per origine e lignaggio, e che tuttavia non hanno minimamente competuto (compeso) tra loro. Si sono al contrario idealmente abbracciati nel mostrarci che il vino può essere aristocratico e contadino insieme, unico e comune, costoso ed economico, più ulteriori coppie di aggettivi antitetici a vostra scelta perché ora non ho voglia di elaborarne altre.
Li ha portati entrambi Giancarlo, per il dato di cronaca. Un quintessenziale Chambolle-Musigny Les Amoureuses 2017 di Groffier e un trasparente Rossese di Dolceacqua 2019 di Testalonga.
Il primo era un vero concerto. Dal bicchiere arrivavano folate di vento aromatico che ti spettinavano, e contenevano tutti i profumi di cui è capace un vino. Al palato, poi, era come se non fosse al cento per cento pinot nero, ma che venisse (in modo illegale rispetto al disciplinare della sua AOC) da un taglio di pinot nero e un 30% abbondante di seta.
Il rosso italico, per parte sua, non gli era sotto nemmeno di un millimetro né come intensità olfattiva – giocata su note lievemente più agrumate, ma altrettanto pure nel timbro del frutto – né tantomeno come profondità gustativa. Anzi, il sapore del Rossese aveva più presa al palato e in definitiva più lunghezza.
Sognare, la notte seguente, di respirare una nebbia di vino risulta una conseguenza normalissima del raro evento vinico. Parafrasando il sublime Cavalcanti, e formato al suo divino insegnamento, oso quindi dire:
“Non fu sì alto già il palato nostro,
né mai si pose in noi tanta salute,
che propriamente ne avean conoscenza”
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In un’altra vita, quando facevo vino, ho assaggiato un Les Amoureuses…lo portò un amico che viveva in Francia, suppongo come complimento, perché lo accomunava al mio 1983. Mi piacque, naturalmente non ricordo l’annata, ma nella mia ignoranza e sciovinismo conclusi che data la enorme differenza di prezzo il mio fosse un bargain al confronto. Anni difficili, enologicamente parlando, ma belli se visti nello specchietto retrovisore della vita.