Taccuino Olandese. Prima parte: Amsterdam

0
5354

AMSTERDAM

30 luglio – 3 agosto 2021

Arrivo ad Amsterdam nel primo pomeriggio di venerdì 30 luglio sotto la pioggia battente di un temporale estivo, uno dei tanti che si rovesceranno sulla città durante il soggiorno: Amsterdam è aperta ai venti e il clima è caratterizzato, anche nella bella stagione, da addensamenti di nubi, pioggia, schiarite, sole e poi addensamenti di nubi, pioggia, schiarite, sole e così via. La temperatura dell’aria è sempre frizzante, in questa stagione non supera i 19 gradi centigradi.

Insomma, arrivo che piove a catinelle, la situazione ideale mentre uno scarica i bagagli, e poi cerco un posteggio. Già, il posteggio. Avevo visto la padrona di casa guardarmi in modo sorpreso, perfino strano, quando le ho detto che ero venuto ad Amsterdam in auto (e in auto ci sono venuto perché arrivavo dalla Germania, fossi partito da Milano avrei preso l’aereo come tutti). Amsterdam non è la città delle auto, questo lo sanno tutti, ma uno non immagina quanto. I parcheggi più prossimi all’appartamento sono a rimozione forzata per chi non ha l’auto elettrica (qui ci sono distributori, o meglio le colonnine di ricarica, a ogni angolo, perché qui tutti, o quasi, quelli che viaggiano in macchina hanno l’auto elettrica o tuttalpiù ibrida), ma ne vedo uno sorprendente libero pochi metri oltre. Parcheggio immediatamente, quasi fregandomi le mani. Poi, però, vado al parchimetro e ci manca poco che non mi caschi la mascella: la tariffa è di 6 euro all’ora, più di Ravello, dei garage del centro di Milano o di qualsiasi altro posto dove abbia mai parcheggiato. Non solo: si paga dalle otto del mattino a mezzanotte. Facendo un rapido calcolo, il soggiorno di cinque notti rischia di costarmi qualcosa come 500 euro solo di parcheggio. Dopo il panico, compulso internet e opto per una cifra più sostenibile in un garage a tre chilometri di distanza: vi si accede con il QR Code e la tariffa agevolata vale solo con la transazione online.

Amsterdam, e più in generale l’Olanda, è la capitale dei pagamenti elettronici: c’era una gelateria vicino all’appartamento che non accettava i contanti, così fanno anche i panifici, e perfino per accedere ai bagni chimici (puliti come una camera d’albergo, non sono le latrine cui siamo abituati in Italia): si striscia la carta, anzi la si avvicina al sensore, perché qui è tutto contactless. La gelateria in questione si chiama Massimo Gelato – potevo forse non andarci? – è in Van Ostaderstraat 147H e fa un gelato davvero buono. L’appartamento (stessa via) è nel quartiere multietnico De Pijp, a sud del Centrum.

Ad Amsterdam circolano poco contante e molte biciclette, più di mezzo milione (alcuni dicono che ci sono più biciclette che amsterdammers e ogni anno ne vengono ripescate 1500 dai canali), e sono tutte registrate, come da noi le auto. Simbolo di una mobilità cittadina che trova il proprio totem nel gigantesco parcheggio multipiano sul lato della Centraal Station e rappresentato dagli sciami su due ruote che ogni giorni sfrecciano sulle centinaia di chilometri di piste ciclabili urbane, la bicicletta olandese frena generalmente con il contropedale (potrebbe capitarvi qualche sgradito blocco sulle prime, come quando si prova per la prima volta il cambio automatico) e irrompe nel traffico. I ciclisti sono abituati a correre senza preoccuparsi troppo del turista che non si è ancora orientato nel dedalo delle righe bianche disegnate sull’asfalto delle carreggiate, le quali, tra le svolte per le auto, i passaggi pedonali e, appunto, le ciclabili, possono risultare complesse come il piano di un gioco in scatola e richiedono, se siete in macchina, cento occhi d’attenzione: ogni volta che state per girare, soprattutto a destra, c’è senz’altro un ciclista che sta per venirvi addosso. Talvolta i ciclisti, i veri padroni della città, si dimenticano perfino i rispettare le strisce pedonali. Alla bicicletta hanno addirittura dedicato la galleria ciclopedonale che attraversa il Rijksmuseum, il museo principale della città, sulla cui cima sventola la bandiera arcobaleno del movimento LGBTQ.

Amsterdam è da sempre simbolo di cosmopolitismo e tolleranza. Sono centinaia le nazionalità presenti nel tessuto cittadino e questo lato multietnico è leggibile anche nel marcato carattere internazionale della cucina, che spesso sopperisce ai limiti congeniti di quella locale. Le iniziative culturali sono molteplici, la qualità della vita è molto alta (come il suo costo, superiore a quello del resto dell’Europa continentale).

Al mattino ti svegli in mezzo al silenzio, perché i veicoli a motore che circolano sono pochi e tutti elettrici, così come i battelli, i traghetti e i motoscafi, e il verso dei gabbiani ti ricorda che sei in un luogo di mare. I semafori scattano solo a richiesta. Non ci sono porte blindate nelle abitazioni né allarmi ai quadri nei musei. Le panchine sono dappertutto come le wi-fi pubbliche, mentre nell’aria è onnipresente l’odore della marijuana e delle canne a tutte le ore del giorno, specie al Dam, l’antica piazza del mercato che sorgeva sulla prima diga (dam) eretta nel XIII secolo, e ora punto informale di ritrovo. Vi si trovano il Koninklijk Paleis, il Palazzo Reale della capitale, il Museo delle Cere di Madame Tussauds e la sede di Booking.com, fondata qui nel 1996. Le droghe leggere, consumate a piacimento nei noti coffee shop, non sono – se non ho capito male – permesse dalla legge, ma non sono perseguite.

Ricordate Pulp Fiction?

Jules (Samuel L. Jackson): Allora come sono questi hashish bar?

Vincent (John Travolta): Che vuoi sapere?

Jules: Lì l’hashish è legale?

Vincent: Sì, è legale, ma non al 100%. Voglio dire, non puoi entrare in un ristorante e rollarti una canna e metterti a sbevacchiare. Insomma ti lasciano fumare a casa o in certi posti ben precisi.

Jules: Ossia gli hashish bar.

Vincent: Sì, la faccenda è così. Ascolta. È legale comprarla, è legale possederla e, se sei il proprietario di un hashish bar, è legale venderla. È legale averla addosso, ma questo non importa, perché, sentimi bene, se vieni fermato da un poliziotto ad Amsterdam è illegale per lui perquisirti. Insomma questo diritto i poliziotti ad Amsterdam non ce l’hanno.

Jules: Eh, amico, ci vado subito. Non ci sono santi, cazzo se ci vado!

C’è un locale del Centrum con l’immagine di Jules Winnfield serigrafata sulla porta d’ingresso.

Posta nel Noord-Holland alla confluenza tra l’IJ, ex golfo del mare (deriva dal frisone occidentale ie, “piccolo fiume”, e dal germanico ahwō, “acqua”), e il fiume Amstel che la percorre da nord a sud, dividendola in due parti e dandole il proprio nome (insieme a dam, “diga”), attraversata da una rete di 165 canali e oltre 1200 ponti, che generano un centinaio di isolette simili a zattere, la capitale dell’Olanda è il mirabile risultato di un insediamento palafitticolo le cui 7000 dimore d’epoca dai caratteristici frontoni (nel residenziale, centralissimo Herengracht, il “canale dei signori”, si notano quelli “a gradini”, “a collo”, “a campana”) formano il più ampio centro storico d’Europa. Le case più antiche sono quelle in legno, ma ne sopravvivono poche: gli incendi del XV secolo le distrussero e furono in seguito ricostruite in mattoni. Tra le superstiti c’è l’Houten Huis (“casa in legno”, la più antica della città, è del 1425) al numero 34 del Begijnhof, il “Beghinaggio”, uno dei luoghi più celebri del nucleo medievale di Amsterdam, fondato nel 1346 come residenza delle beghine, le donne non sposate o vedove che si dedicavano alla preghiera e all’assistenza degli anziani. Quando ci sono passato il cortile era purtroppo chiuso. Ho invece fotografato l’altra dimora in legno, al civico 1 di Zeedijk, nonché la casa più stretta, larga un metro (101 centimetri per la precisione) e incastrata tra due abitazioni, al civico 7 del Singel, il principale e più antico canale della città. Oltre a essere talvolta pendenti, le case di Amsterdam sporgono naturalmente in avanti per favorire l’incanalamento dell’acqua piovana e i traslochi (il fronte di ogni abitazione ha un gancio in ferro per questo).

Nel suo Olanda, pubblicato nel 1876, Edmondo De Amicis descrive così Amsterdam: «La sua figura è un perfetto semi-circolo, percorso da tanti canali in forma d’archi concentrici a quello che chiude la città, e attraversati da altri canali convergenti al centro, come i fili di una tela di ragno». Per Marino Magliani, scrittore italiano trapiantato in Olanda e autore di pagine illuminanti sulla città nella Guida Verde del Touring (2019), Amsterdam è una farfalla e una città di porto senza un mare. Potrebbe anche assomigliare a un alveare. Anfibio.

Il De Pijp, il distretto dove soggiorno, era alla fine del XIX secolo un quartiere operaio ed è oggi considerato l’equivalente del quartiere latino di Parigi. Sull’asse centrale di Albert Cuypstraat, punteggiata da negozi e ristoranti, va in scena quotidianamente l’Albert Cuyp Markt, nato spontaneamente alla fine dell’Ottocento e attivo dal 1912. È un mercato più prosaico di quello descritto dalle guide, ma sulle sue disparate bancarelle (e sono centinaia) si trova di tutto (abbigliamento, oggetti vintage, elettronica, cosmetici, souvenir), compreso uno dei più completi foodcrossing multietnici della capitale: spande nell’aria gli aromi speziati ed esotici delle ex colonie olandesi come i sentori più forti e salmastri del mare del Nord (aringhe, cipolle).

Mi fermo da Yunus Berkan (“The best food in Amsterdam!”, recita umilmente lo striscione appeso sopra la bancarella), gestito da una coppia di curdi intorno alla sessantina. Lei, con il velo sul capo, è intenta a lavorare e non proferisce parola. Lui, da bravo imbonitore, non la smette di parlare. Mi chiede da dove vengo. Da Milano, rispondo. E lui: «Ah Milano! Milano is good. No mafia!». Evito di replicare. Poi mi chiede se voglio il pesto nei gözleme (piatto tipico turco, una pasta tirata a mano al momento su un grande tagliere di legno e poi cotta su una piastra di metallo). Sono recalcitrante, mica sono venuto ad Amsterdam per mangiare il pesto. Ma lui insiste, vuole farmelo provare a ogni costo, evidentemente vuole farmi sentire a casa. Annuisco, infine. E lui esclama, all’indirizzo della moglie, il grido della vittoria: «Pestooooo, yesss!», che da quel momento è diventato un modo di dire e il tormentone dell’estate. Poi ne ho preso un altro con patate e feta. Non so se fosse il miglior boccone etnico di Amsterdam, ma era buono.

Inutile dire quanto siano buoni i formaggi olandesi, che non sono ovviamente i Leerdammer o i Maasdammer commerciali che siamo abituati a mangiare in Italia, ma i vari Oude Brokkel, Oud Belegen, Boeren Extra Belegen, e come sia facile reperirli nei market, nei negozi o nei negozietti della città. Uno dei migliori che ho incrociato si trovava proprio tra Van Ostaderstraat e Albert Cuypstraat: si chiama Sjoerds Loekie ed è in Ceintuurbaan 400. Ho comprato un vecchio Beemster di due anni proveniente dal Zuid Holland (Olanda meridionale) che era una squisitezza.

Non sono infrequenti i panifici che sfornano cose appetitose come, sempre nel quartiere, due belle botteghe a poca distanza l’una dall’altra in Van Woustraat: Vlaamsch Broodhuys al civico 78H e Bakery Van Wou al civico 114.

Non lontano da qui, il Museumplein, un parco chiuso al traffico che sembra un atrio a cielo aperto, ospita i tre principali musei della città, i cui stili architettonici si specchiano a contrasto: la monumentalità neorinascimentale del Rijksmuseum, le superfici essenziali del Van Gogh Museum, la spericolata, aereodinamica copertura sporgente (la cosiddetta “vasca”) dello Stedelijk Museum con le sue collezioni contemporanee.

Si va al Rijksmuseum per vedere la grande arte olandese del Seicento, e anche in una giornata di riallestimento con alcune sale chiuse è difficile uscirne delusi. Ci sono i dipinti di Rembrandt, naturalmente, a partire dalla celebre Ronda di notte, un telero di grandi dimensioni, d’impatto scenografico e d’indubbia maestria pittorica, ma troppo dispersivo, forse, per sconvolgere come altri, più piccoli quadri del maestro di Leida. Ad esempio l’Autoritratto (e gli autoritratti di Rembrandt, una serie quasi infinita, raramente lasciano indifferenti, scavando nel profondo, traducendo un infausto senso di disillusione, disperazione, disfacimento), il celebre, melanconico Geremia che piange la distruzione di Gerusalemme o La profetessa Anna, conosciuta anche come Donna che legge (con quella luce diagonale e teatrale che proviene dall’alto, con quello scranno che sembra una forma organica – una vecchia testuggine come la testa della profetessa – e con quella mano appoggiata alla Bibbia che è un compendio di rughe in punta e finezza di pennello), oppure ancora un tardo capolavoro come La sposa ebrea, in cui la pennellata si fa sempre più gestuale, le spatole impazzano, i tessuti diventano materia ardente, il realismo crudo e implacabile sta per cedere alla dissoluzione dell’informale.

E poi c’è Johannes Vermeer, il pittore degli incantesimi e delle ipnosi. Ecco la luce ombrosa, quasi temporalesca, tipicamente olandese (come trascolora qui il cielo!) della Stradina di Delft, il suo paese natale. Ecco quella gioiosa, squillante della Lattaia. Ecco quella soffusa della Ragazza che legge la lettera, una sinfonia di blu: il lapislazzuli del bastone di ferro che sorregge la cartina geografica attaccata al muro, l’avio dell’imbottitura delle sedie, l’azzurro dell’abito della donna e uno sbaffo di colore analogo che proviene dalla fonte di luce sulla sinistra del quadro, probabilmente una finestra (presenza ricorrente nelle sue composizioni), che accarezza la protagonista e gli oggetti che la circondano.

Il Van Gogh Museum – inaugurato nel 1973 con la struttura principale di Gerrit Rietveld che ospita la collezione permanente, cui si sono poi aggiunti l’ala delle esposizioni di Kisho Kurokawa (1999) con il gabinetto delle stampe, e l’emiciclo vetrato che collega i due corpi (2015, opera dello studio Van Heeswijk, partendo dai disegni dello stesso Kurokawa) – contiene 2000 dipinti e circa 500 disegni. È il più vasto patrimonio artistico di Vincent van Gogh, diventato l’emblema dell’artista tormentato. La disposizione delle opere non procede per cronologia ma per accostamenti tematici. Al piano terra, ad esempio, scorrono sulle pareti i 12 autoritratti, dipinti tra il 1886 e il 1887, che sono altrettante variazioni sul tema del sé. È una carrellata stupefacente, in cui è possibile sondare le pieghe di un’inquieta introspezione. Con o senza il cappello, di paglia o di feltro, dentro le pennellate spiraliche o il delirio del colore, la galleria rimanda fisionomie e fattezze ora buffe, ora agitate, ora animalesche, ora demoniache (il suo volto ricorda ora il protagonista di Stalker di Tarkovskij, ora alcuni febbrili personaggi dostoevskiani), dentro le quali la disperazione sembra erompere da un momento all’altro.

Ai piani superiore scorrono quadri celebri come I mangiatori di patate, Fiori in un vaso, Girasoli, nature morte, marine e paesaggi. Su tutti s’imprimono nella retina della memoria la Stanza con il letto giallo, tra il naïf e il Nabis; il sinistro, acceso Campo di grano con il mietitore; il fosco, panoramico Campo di grano con i corvi, il suo commiato dall’arte e dalla vita.

Nei musei – cari come i parcheggi e come l’ingresso in ogni chiesa – ci sono pochi custodi per sala e poche persone con la mascherina. Sono capitato ad Amsterdam nell’agosto del 2021, quando la diffusione del Covid aveva superato la soglia d’allerta. Eppure tutti, o quasi tutti, noncuranti delle conseguenze, andavano in giro senza mascherina. Gli unici che le avevano erano i turisti. Non infrequenti erano le manifestazioni del No Vax. Per evitare rischi ho deciso di non andare nei ristoranti, nei locali e di non usare i mezzi pubblici, compresa la metropolitana (pare assurdo per una città costruita sull’acqua, ma ad Amsterdam c’è anche la metropolitana, benché la sua costruzione non sia stata indolore –alcune ferite del suo tessuto urbano sono tuttora visibili – e fonte di aspre controversie) e di affittare un’imbarcazione privata al posto dei battelli affollati per la crociera sui canali.

Trascorrere un’ora e un quarto a pelo d’acqua – tra canali, ponti, biciclette, case, cicogne, aironi, gabbiani, anatre – restituisce un’immagine diversa e più completa della città, e permette di notare la quantità di waterwoning, o case galleggianti, attraccate sulle sponde. Sono oltre 2500 (750 ormeggiate solo nel Singel) e ce n’è di ogni tipo, comprese chiatte riadattate a uffici o atelier. Il fenomeno si è diffuso a partire dal secondo dopoguerra, dopo la dismissione di molte attività portuali, e l’Amministrazione Comunale le ha rese vivibili, portando elettricità, acqua, telefono, fognature. Dalla fine degli anni Sessanta sono diventate abitazioni alternative, di tendenza o status symbol.

Nel bacino dell’Oosterdok, settore nord della città, formato nel 1832 con la costruzione della diga di sbarramento sull’IJ, si respira l’aria e la memoria della città marinara di un tempo. L’occhio è attirato dall’Amsterdam, una copia costruita tra il 1985 e il 1990 della nave mercantile che nel XVIII secolo faceva parte della Compagna olandese delle Indie orientali, dietro alla quale si trova l’Het Scheepvaartmuseum, il Museo Marittimo Nazionale, ospitato in un ex magazzino navale del 1656 progettato dal primo architetto cittadino, Daniël Stalpaert, che fu anche carpentiere, disegnatore, pittore e autore del Koninklijk Paleis.

Ma a giganteggiare all’interno del bacino è il popolare NEMO Science Center, progettato da Renzo Piano nel 1997. Ospita il Museo della Scienza e della Tecnologia e ha la forma di un’enorme prua, di color verde rame, puntata verso l’orizzonte. Dal tetto, collegato alle banchine da un ponte pedonale, leggermente digradante e organizzato a piazza con tavoli e panchine, si gode un bel panorama della città e del suo meteo mutevole. Nei pressi c’è anche un Botel, crasi tra boat e motel.

___§___

Crediti fotografici dell’autore

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here