La stanchezza annoiata dei legni piccoli

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Terza e per il momento ultima puntata della ricognizione sul periodo definito con enfasi patriottarda Rinascimento del vino italiano. Se insisto sulla supposta grandezza del fenomeno è perché un’analisi di quell’epoca può essere utile a non replicare gli stessi errori oggi o in futuro. Dico meglio, sul supposto successo del fenomeno: meglio evitare l’aggettivo al femminile, anche se rende figurativamente l’idea di una cura imposta per vie non molto naturali. Un segmento particolarmente significativo di quella fase, divulgata nei decenni successivi come eroica, è stato l’epopea dei cosiddetti Barolo boys. Un gruppo di produttori “visionari” che ha saputo “svincolarsi da un retaggio di miseria, approssimazioni, mediocrità”, per proiettare il grande rosso langarolo nell’Olimpo delle bottiglie migliori del mondo.

La parabola di questi geniali innovatori può essere approfondita vedendo su Youtube l’ora di documentario del 2014 dal titolo Barolo boys: Storia di una Rivoluzione . Nomi, aziende, vicende, eventi li trovate descritti colà. Qui accenno in sintesi i capisaldi teorici e pratici degli apostoli del Barolo moderno, moderno e insieme anacronistico: abbassamento drastico delle rese in vigna, abbandono delle lunghe fermentazioni/macerazioni in cantina in favore di fermentazioni brevi e talvolta brevissime, abbandono delle botti grandi in favore della barrique e/o tonneau. Troppo stringato, eh? vabbè.

Fin dalla premessa sociologica la narrazione fa un po’ acqua. L’equazione “Barolo tradizionale = prodotto mediocre delle campagne povere” trova riscontri relativi ma non certo assoluti. Nelle parole di Federico Ferrero*:

I Barolo Boys cascano, da sempre, in un equivoco di fondo: è vero, i nonni contadini delle colline, i loro genitori, tiravano la cinghia e producevano un Barolo mediamente cattivo. Ma la loro miseria non dipendeva certo dal fatto che non fosse stato rivelato loro il segreto di Santa Barrique, così come i vini erano difettosi perché enologicamente triviali. Il contesto da Malora fenogliana, che Altare rammenta con legittimo sollievo ora che si è emancipato e invecchia nell’agio, riguardava i contadini sprovvisti di conoscenze e di cultura enoica, non il mondo enologico tutto. Gente cresciuta ereditando fame, insegnava fame: indebitarsi e prendere a vinificare, con le indispensabili conoscenze scientifiche e le buone pratiche in cantina, non era all’ordine del giorno.”

Allo stesso modo, e anzi con maggiore evidenza sensoriale, bottiglie che erano ritenute campionesse del nuovo corso mostravano dopo pochi anni – e a maggior ragione mostrano oggi – la corda. Una fetta notabile dei Barolo moderni/anacronistici degli anni Ottanta e Novanta risulta appiattita in questo deludente prospetto organolettico: colori bruniti precocemente, aromi dolciastri e amorfi, sapori mollicci, superalcolici, dai tannini appiccicosi.

La ricerca affannosa di una “precoce polimerizzazione dei tannini”, per donare al vino un’altrettanto precoce piacevolezza (“eh, bisognava attenderli vent’anni, i Barolo di una volta, prima erano duri come istrici. Invece senti adesso”), ha generato spesso mallopponi indigesti, nei fatti nemici giurati della tavola. Un modello grazie a Dio smentito dalla storia, o quantomeno da una quota non minoritaria della storia langarola contemporanea. Come prosegue Ferrero:

I conoscitori del vino sanno che la vaniglia, il caffè e quel carnevale di Rio di gusti esotici applicati, con rigore farmacistico, all’uva nebbiolo hanno fatto la fine che meritavano. Ormai sono rimasti in pochissimi ad arraffare al mercato delle spezie, l’aroma di legno abbrustolito che con la terra delle Langhe c’entra come i raduni di Casa Pound nel centro studi Beppe Fenoglio.

(…) Il Barolo tradizionale è sempre esistito, quello del falegname va sparendo; Marc De Grazia, un tempo pronto a monopolizzare il commercio del Barolo, vive sull’Etna e tutto si può dire tranne che i minuti dedicatigli nel documentario restituiscano impressioni di gioia e soddisfazione. Per me, trasudava mestizia e un senso di amarcord amaro e marsalato, quello dello sconfitto.

Giovanni Canonica

Ora, in tutta evidenza una divisione anaelastica in modernisti “brutti puliti e cattivi”**, e in tradizionalisti portatori di alti ideali e creatori di vini meravigliosi, non è proponibile perché ingiusta. Alcuni Barolo, penso ad esempio al Ciabot Mentin Ginestra di Domenico Clerico in diverse edizioni, mostrano oggi i lineamenti di un rosso “moderno” e boisé, ma dalle ottime fondamenta tanniche e dal sapore molto piacevole. Così come, a essere onesti, varie vendemmie anni Ottanta dell’Arborina altaresco, che tutto avevano fuorché uno stile pacchiano e dimostrativo; anzi.

Tuttavia i testimoni liquidi del tempo continuano a parlare con eloquenza. Due bevute degli ultimi giorni si sono rivelate antitetiche. Non erano state programmate per dimostrare una tesi precostituita, sono semplicemente capitate. Una a casa di una coppia di amici, che avevano stappato il primo Barolo in perfetta buona fede, aspettandosi una bottiglia di valore; un’altra, due giorni dopo, con un altro amico, in compagnia di una seconda bottiglia di Barolo da Ciro di Mostò (valida enoteca con cibo in Roma).

Il primo Barolo, un 2000, famoso ma ovviamente innominabile, è risultato una catastrofe: colore marrone testa di moro, aromi di Rhum scadente (di quelli “che si bevono nei peggiori bar di Caracas”: zucchero filato, legno dolciastro, alcol denaturato), gusto desertificato di sapori. Un’unica linea retta di caramello e bruciore alcolico.

Il secondo, un Barolo Paiagallo di Giovanni Canonica, era un semplice e insieme incredibile 2008, ma avrebbe potuto essere benissimo un vino di annata più vecchia di due decenni, perché i dati salienti erano – al netto del carattere individuale della vendemmia – comuni. Tutti secondo i fondamentali della tipologia: supertannini, superprofondità sotterranea (intendendo la capacità dei migliori Barolo di affondare nei più profondi recessi del palato, quasi a metterci radici), superalcol (14,5°). Eppure, magicamente, con un finale che restava in volo librato: a un metro sopra le teste dei bevitori. Fresco, luminoso, aereo. Ma che dico, aereo? elicottero, libellula, colibrì. Un colibrì di stazza fuori scala, certo; ma un colibrì.

C’è bisogno di sottolineare che Giovanni Canonica ha sempre fatto il Barolo in modo classico, con lunghe macerazioni, botti grandi, eccetera?
C’è bisogno di rimarcare che, in un rilievo statisticamente imbarazzante, l’uva chiamata nebbiolo fa a cazzotti con i legni piccoli***? (Inter se nun se pigliant, dicevano già gli antichi romani).
C’è bisogno di annotare che quel movimento ha snaturato una delle caratteristiche nobili del Barolo, vale a dire la sua tenace, quasi irriducibile longevità? in nome di cosa? del fatto che la longevità non è di per sé un valore, e che un Barolo si può e si deve bere da subito? Anche qui qualcosa non torna: difatti i migliori Barolo possiedono entrambe le doti, si possono bere da giovani e dopo decenni.

Insomma, per come la vedo io, un repertorio di incertezze. Di innovazioni in moto retrogrado. Di atteggiamenti liquidatori.
Sono certo che molti fossero in buona fede, in quello strano Rinascimento. Che fossero animati delle migliori intenzioni. Che abbiano anche raggiunto, a macchia di ocelot, risultati apprezzabili. Che abbiano fatto nascere vini di vaglia, senza peraltro avere nulla a che fare con le Poste Italiane.
Però il bilancio complessivo è più ricco di ombre che di luci.

___§___

* https://www.intravino.com/grande-notizia/vedendo-barolo-boys-penso-a-mio-padre-marco-ferrero-e-a-come-davvero-e-andata-a-finire-quella-storia/

** “puliti” perché ritenuti portatori di igiene e salus nelle cantine, sgombratori di sporcizie, riportatori sulla retta via

*** legni piccoli nuovi o comunque cedevoli, per carità. Non sia mai che un puntualizzatore di passaggio arrivi e ci informi che una barrique vecchia etc etc

Fabio Rizzari

Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

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Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

2 COMMENTS

  1. Non si può valutare una vendemmia, una cantina, da una singola bottiglia. Un tappo difettoso (senza necessariamente rilasciare “sentore di tappo”) può fare danni incredibili.
    Per quanto riguarda Canonica, sono anni che non riesco più ad acquistare una bottiglia. L’ultima vendemmia è stata la 2010. Di cui ancora ne custodisco una bottiglia! Una sola, mannaggia! Quando si decide a raddoppiare i suoi vigneti?
    Stefano

  2. Mi sta rivelando che Parigi è una città. Sono alcuni decenni che stappo bottiglie, sono alcuni decenni che metto in guardia dal rischio del cosiddetto “tappo nascosto”, che non si dichiara ma che subdolamente altera il profilo organolettico di un vino. Qui il contesto è un altro. Il suddetto innominato Barolo l’ho seguito – aprendone almeno sette bottiglie – nel corso della sua “evoluzione”: appena uscito sul mercato, dopo tre anni anni dalla vendemmia, eccetera. A parte l’ossidazione, che ovviamente è intervenuta a peggiorare un quadro già imbarazzante, il profilo era ed è quello che ho descritto.

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