

Ricevo un numero non elevato di messaggi dagli appassionati di vino. Nei fatti, pochi. In realtà, pochissimi. Un paio al mese, in media. Mirko da Treviso mi scrive: “Lei” (il lei segnala che probabilmente Mirko ha meno di quarant’anni, o meno di trenta, o forse meno di venti) “dice che si è stancato dell’enografia e che i dati essenziali su un zona o su un produttore si trovano con google con facilità, però se io non conosco una zona o un produttore mi fa piacere un inquadramento”.
Giusto. Oggi, una tantum, posso tornare alla struttura canonica degli articoli d’antan: premessa sulla zona, un paio di pennellate sulla storia, qualche informazione sul clima e sulla conformazione pedo-oro-idrografica, e poi le canoniche note sui vitigni, sulle forme di allevamento, sui diversi stili di vinificazione. Per finire con la segnalazione di un vignaiolo poco noto.
Tema: la Valtellina.
Svolgimento: la Valtellina è una lunga striscia di territorio che si dipana da ovest a est per quasi duecento chilometri, incastonata tra le imponenti Alpi Retiche Occidentali e le altrettanto monumentali Alpi Bergamasche. Ha, o meglio è costretta ad avere, una viticoltura eroica (eroico è un aggettivo che bisogna sempre usare quando si parla di viti di montagna).
I terrazzamenti delle vigne strappano alla terra – spesso alla roccia – piccole parcelle coltivabili. La superficie dei vigneti non è ovviamente mai estesa, ciò che modella un paesaggio più simile a un mosaico che a una distesa uniforme di prati e boschi.
I terreni, in massima parte sabbiosi, derivano dal disfacimento del materiale roccioso sottostante ai numerosi ghiacciai che insistevano sull’intera valle nei tempi più remoti. Le vigne, tenute storicamente a ritocchino (in senso parallelo alla pendenza), sono via via convertite a girapoggio, meno arduo da gestire.
La viticoltura in questa zona ha radici antichissime, che risalgono all’opera degli antichi romani (un cenno all’Antica Roma è d’obbligo, se c’è almeno un piccolo pretesto per farlo).
Per secoli il vino locale è stato commerciato a nord, verso la Svizzera, per ovvi motivi geografici e culturali. Con l’entrata nel Regno d’Italia, nella seconda metà dell’800, la Valtellina si trova a spostare i suoi interessi verso il meridione della penisola, in particolare verso il resto del territorio lombardo.
Nel 1872 viene fondata la Società Enologica Valtellinese, con il nobile intendimento di razionalizzare le pratiche colturali ed enologiche del posto. Qualche scelta, tuttavia, va nella direzione di una certa standardizzazione della produzione, in particolare per la scelta di abbandonare i vigneti “promiscui” e le parcelle sopra gli 800 metri. In questa fase di massima espansione della superficie vitata la valle conta quasi settemila ettari. La fillossera è il primo responsabile della contrazione dei decenni successivi, che porta la Valtellina a contare meno di mille ettari attuali; ma conta anche, e molto, il passaggio – a tratti violento – dell’economia locale da rurale a industriale e terziaria. Nonostante l’appiattimento causato dalle suddette scelte omogeneizzanti, la Valtellina conserva a tutt’oggi un significativo patrimonio di biodiversità viticola. Ospita infatti diversi vitigni rari: rossola, pignola, negrera, chiavennaschino, brugnola, eccetera.
I rossi locali, al netto delle inevitabili e ovvie differenze tra un’azienda e l’altra, offrono una matrice stilistica comune: un colore non saturo, spesso percorso da riflessi evoluti sul granato anche da giovani; dei profumi eterei, slanciati, soffusi; un sapore finemente fruttato, in apparenza poco strutturato ma molto tenace – e talvolta fortemente asciugato – nella presa tannica; un finale caldo per il “fiato” alcolico, ma anche di decisa presa sapida. Il disciplinare individua cinque sottodenominazioni: Maroggia, più a ovest, la zona forse meno nota all’appassionato; Sassella, tra Castione Andevenno e Sondrio, che al contrario è il nome più conosciuto; Grumello, che prende il nome dal castello omonimo; Inferno, nome che evoca scenari danteschi, dovuto al fatto che nei suoi anfratti rocciosi e fortemente soleggiati d’estate si raggiungono temperature estreme; e infine Valgella, a est, la più estesa delle sottozone.
Le varietà di uva citate, tutte più o meno imparentate tra loro a livello genetico, e più o meno indirettamente al nebbiolo, costituiscono un caleidoscopio di potenzialità enologiche ancora solo in parte espresse. Il rischio maggiore è che le potenzialità di queste uve restino tali, senza un’esplorazione approfondita delle loro virtù: qui, infatti, da decenni è in corso una progressiva concentrazione delle risorse produttive sulla chiavennasca, varietà principe perché fatta coincidere tout court con il nebbiolo e con la sua notorietà “langhecentrica”. E come tale a diretto traino della fama planetaria del Barolo e del Barbaresco.
L’immagine promozionale dominante è perciò quella del “Nebbiolo di montagna”, che al pari del “prosciutto di montagna” o del “caffè di montagna” suona uno stereotipo pubblicitario per veicolare l’idea di un prodotto rustico e autentico, più che un concetto aderente alla realtà.
E la realtà, purtroppo, è che a fronte di un numero molto esiguo di vignaioli veri, sempre a spaccarsi la schiena nei terrazzamenti, esiste un ampio gruppo di imbottigliatori molto più comodamente seduti davanti alla scrivania a speculare sul prezzo delle uve. Facendolo abbassare in modo drammatico.
La realtà produttiva è quindi spaccata in due segmenti non certo equivalenti come peso economico: da un lato i produttori di vino artigianale, che come si dice “stanno sulle spese” e faticano a far quadrare i conti, dall’altro i produttori di vino che contano – del tutto legittimamente, è ovvio – sull’acquisto di uve (a prezzi spesso ribassati) e su numeri più ampi. Questi ultimi, i trasformatori, coprono il 90% dell’imbottigliato.
Dopo questa spero accettabile visione d’insieme, vi giunga la segnalazione di un vino degno di attenzione, il Rosso di Valtellina 2019 della nuova firma Ascesa. Tale nucleo produttivo, giovanissimo, è stato fondato nel 2018 da quattro soci a Tresivio. I quattro non meglio identificati soci – altrimenti definiti “quattro amici” – hanno saggiamente scelto lavorazioni all’insegna della più rigorosa artigianalità. Niente elicotteri per trattare le vigne, in altre parole, né consulenti umbri o francesi per dettare la condotta agronomica e/o enologica.
Il rosso si presenta classicamente poco saturo nel colore, e dopo una iniziale esitazione dovuta a normali velature di riduzione si apre in intriganti note di rosolio e petalo di rosa. Al gusto è ritmato, di bella progressione, slanciato, e non manca di finezza tannica, né di freschezza acida, né di sapidità conclusiva.
___§___