Bordeaux non è più Bordeaux, ma è sempre Bordeaux

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Una spiegazione esauriente del titolo richiederebbe parecchi paragrafi che non ho voglia di scrivere. Quindi tenetevi il titolo così com’è.
In pillole, ma proprio in pillole, posso appena sbozzare l’argomento. Il cliché di Bordeaux è quello di una regione vitivinicola che ha imposto – a tratti tirannicamente – un modello produttivo standardizzato: sfruttamento intensivo delle risorse agricole, vasta omogeneizzazione del materiale vegetale (selezioni clonali, scarto delle varietà considerate poco resistenti e poco uniformi nelle rese), impiego delle più moderne e invasive tecniche enologiche. Risultato: sterilità dei terreni, appiattimento delle differenze e della biodiversità, ripetitività ossessiva di un modello stilistico prevedibile, dall’in folio dei Premier Cru al trentaduesimo e sessantaquattresimo dei rossi da 6 euro sugli scaffali dei supermercati.

D’accordo. Scordatevi questa pittura. Da vari anni, e meglio da più di un decennio, molto si muove, molto cambia. In meglio, devo dire. Dopo l’apripista Pontet-Canet, nei primi anni Duemila, sempre più Château sperimentano il bio e la biodinamica. L’augusto Premier Cru Latour, per dire, conta ormai 60 ettari in regime biodinamico su 97 complessivi, cioè quasi due terzi. Il colpo d’occhio del Médoc percorso in automobile, che un tempo induceva alla mestizia per il grigiore dei terreni dei vigneti, ora appare sempre più spesso verdeggiante, dato che si lascia lo spazio tra i filari inerbito.

In cantina, poi, il rigido e inalterabile protocollo classico (fermentazioni controllatissime/barriques diciotto mesi/filtrazioni/imbottigliamento) viene via via affiancato e ammorbidito dall’innesto di nuovi materiali (per esempio si diffonde la terracotta, qui pronunciata “teracottà” o “onfòr”, da anfora) e di vasi vinari più ampi (le cosiddette botti grandi). Soprattutto, di tecniche estrattive più delicate: spariscono progressivamente i rimontaggi frequenti e i délestage, si fa strada una “presa di tannini” morbida, da infusione di tè più che da spremitura di arance.

Se tutto questo è vero, e lo è, i risultati dovrebbero cogliersi nel bicchiere. Ebbene, l’annata assaggiata en primeur pochi giorni fa, la 2021, è un esempio lampante del nuovo corso bordolese. Complice un andamento climatico più classicamente médocain, vale a dire disomogeneo e non del tutto favorevole come climatologia, si sono avuti molti, moltissimi vini (relativamente) poco alcolici, vale a dire sui 13 gradi. Come una volta, come trenta o quarant’anni fa. Ma, a differenza del passato, non si può parlare di annata cruda, perché i tannini sono maturi e pressoché del tutto privi di accenti vegetali. Un’estrazione mirata ha restituito un gusto equilibrato, che ha come marchio un’impressionante freschezza. La 2021 esalta il tratto più peculiare dei rossi di Bordeaux, quello del finale rafraîchissant, rinfrescante, moltiplicandolo al quadrato.

Sono quindi vini raccomandabilissimi, perché:

a) figli non della “grande annata”, che è sempre intimidatoria e nei fatti antipatica, ma di una buona annata

b) poco alcolici

c) poco tannici

d) freschissimi

e) perciò facili, drammaticamente facili da bere

Nel prossimo pezzo trascriverò qualche nota di assaggio. Ma intanto scrutate i listini delle vendite en primeur: ne vale la pena.

Fabio Rizzari

Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

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Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

3 COMMENTS

  1. Buonasera, sono un vostro assiduo lettore.
    Mi permetto un piccolo appunto da professorino: délestage e médocain vanno con l’accento acuto sulla prima “e”.

  2. Buona sera Dino, grazie del commento, come vede abbiamo provveduto. Anche se, a mio personale giudizio, scrivendo in italiano si può forse evitare di seguire una perfetta ortografia. Sempre meglio un “delestage” senza accento che uno “scannerizzare”, tanto per fare un esempio. Così come è meglio bere un tè, che un thé.

  3. Sì, nel trascrivere termini stranieri non esistono regole ferree ma solo consuetudini redazionali: personalmente uso solo il singolare (wine bar e non wine bars, et similia) e non sono fiscale negli accenti. Altri si regolano diversamente, e ben venga

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