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Dalla ricevitoria del Lotto all’arte concettuale

Negli ultimi trenta anni la percezione collettiva dell’enogastronomia è cambiata in via radicale. Sul piano personale ho assistito direttamente a una mutazione socio-antropologica impressionante. Nei primi anni Novanta se in un salotto di persone che non conoscevo arrivava la domanda standard: “di che ti occupi?” o la variante “che lavoro fai?” (nella maggioranza dei casi con lo squallido sottotesto “fammi capire quanto guadagni”), alla risposta “scrivo di vino” la reazione era di bonaria indifferenza. Quando non di affettata preoccupazione per le mie sorti finanziarie: “ma davvero? non è un hobby? è un lavoro?”.

Sul piano delle gerarchie sociali equivaleva più a meno alla risposta: “ho un impiego in una ricevitoria del Lotto”, “sono nelle Ferrovie”, “faccio il ragioniere in un’impresa edile”. Oggi, esattamente all’opposto, scrivere sul vino cazzate qualsiasi in un qualsiasi spazio virtuale (ormai rarissimamente cartaceo) significa qualificarsi come una rockstar. Nella gerarchia sociale pareggia il livello di “creatore di start-up” di successo, astronauta, proprietario di Netflix, attore americano, artista concettuale.

Tornando per pochi giorni in Maremma, dove ho passato varie estati proprio a metà del decennio novantico, riflettevo su questo rivolgimento sociale. Per rinverdire nostalgicamente quel periodo ho bevuto due o tre di vini della Parrina, tenuta nei pressi di Orbetello che all’epoca faceva vini piuttosto rustici: alcolici, squadrati, dalla grana tannica – ove rossi –sapida ma non proprio finissima.

Dopo decenni in cui non ne ho bevuto nessun altro, ho registrato un chiaro alleggerimento dei toni. I bianchi, un Vermentino e un Ansonica, sono abbastanza longilinei nel profilo, di media densità interna ma di buona freschezza. Il rosso, un semplice Sangiovese “bio”, è molto più delicato nell’estrazione e si beve bene.

Certo, avendo stappato nella stessa occasione un elettrizzante Sauvignon Fumé 2020 Weingut Abraham, nuova luminosissima prova di Martin e Marlies Abraham, il confronto è risultato ingeneroso.
Ma la memoria di quelle lontane estati degli anni Novanta, quando di degustare vino e scriverne non fregava niente a nessuno, è stata onorata in modo adeguato.

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