Bulichella e il suo Hide

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È un fresco e soleggiato mattino di fine settembre ai Navigli di Milano quando raggiungo il ristorante Maré di Ripa di Porta Ticinese, tavola di provenienza e ispirazione romagnola (della riviera per la precisione: Cesenatico). C’è una verticale dal titolo “10 Anni di Hide, l’anima di Bulichella”, anche se poi avrei scoperto, non senza un filo di rammarico, che le annate in degustazione sarebbero state solo quattro. Sufficienti comunque a delineare il quadro stilistico di questo vino e la sua interna coerenza.

Bulichella, situata nella campagna dell’omonima località di Suvereto (Val di Cornia, provincia di Livorno), ha una storia interessante alle spalle. È stata fondata da Hideyuki Miyakawa, classe 1937, giapponese di Maebashi (prefettura di Gunma, di cui è capoluogo, situata a cento chilometri da Tokyo), amante dei motori, del design e dell’arte, che nel 1960, all’età di ventidue anni, si mette in testa di fare il giro del mondo con un amico a cavallo di una moto Yamaguchi 125, giusto in tempo per raggiungere le Olimpiadi di Roma.

In Italia, per mantenersi, lavora come corrispondente estero per il «Mainichi Shinbun», quotidiano giapponese fondato nel 1872. Nel novembre del 1960, al Salone dell’Automobile di Torino, dove si reca come inviato, Hideyuki conosce Maria Luisa Bassano, studentessa in procinto di trasferirsi proprio in Giappone e figlia del direttore della Lancia. S’innamorano e si sposano nella terra del Sol Levante due anni dopo. Rientrati in Italia, Hideyuki fa il suo ingresso nel mondo del design automobilistico e diventa socio di Giorgetto Giugiaro e Aldo Mantovani, fondando nel 1968 l’Italstyling, poi diventata l’Italdesign, marchio storico del settore (realizza l’Alfasud per Alfa Romeo, i progetti di due celebri vetture della Volkswagen come Passat e Golf, stringe collaborazioni anche con FIAT, Hyundai, Mitsubishi). Hideyuki si afferma come imprenditore, collabora con il team della Suzuki nel campo delle corse motociclistiche e contribuisce alla diffusione del design italiano in Giappone.

Nel 1983 cerca un luogo dove poter vivere in armonia con la natura, insieme ad altre tre famiglie, sganciandosi dai modelli sociali tradizionali. Lo trova, dopo lunga ricerca, a Bulichella, nella campagna di Suvereto. Da subito, e dietro iniziativa di Maria Luisa, viene intrapresa un’agricoltura sostenibile, facendo di Bulichella la prima tenuta a conduzione biologica della Toscana. Oggi conta 42 ettari complessivi, di cui 14 vitati e 10 tra uliveti, bosco, frutteto, orto e un agriturismo. Nel 1992 Hideyuki e Maria Luisa si trasferiscono da Torino a Suvereto e nel 1999 diventano gli unici proprietari di Bulichella, rivedendo gli impianti vitati e decidendo di cimentarsi con la produzione enologica.

A raccontare la storia dell’azienda è Shizuko Miyakawa, figlia di Hideyuki e Maria Luisa, quinta di sette fratelli. Ha un volto sereno e sorridente che emana un senso di accoglienza e giovialità. Accanto a lei c’è Rachele Micheli, biologa, originaria di Suvereto, che ha fatto la prima vendemmia a Bulichella nel 2007 e da due anni, insieme al capo cantiniere Ali Ersoy, segue direttamente la produzione gestita da Luca D’Attoma, il quale dalla vendemmia 2015 – anno della nascita del Suvereto Montecristo, alfiere bordolese aziendale, e del restyling delle etichette – è tornato a Bulichella dopo averla vista nascere e aver accompagnato i suoi primi passi.

Syrah in purezza da viti piantate nel 1999, l’Hide, prodotto dal 2007 e dedicato al titolare della tenuta, nasce nella campagna a est di Suvereto, ameno borgo storico della Val di Cornia (l’etimo del toponimo, attestato dal 973, deriva dal latino suber, “sughero”, localmente chiamato “suvero”), tra il Tirreno, la cui presenza mitiga le temperature spesso elevate (qui piove poco), e le Colline Metallifere, che donano componenti ferrose a terreni dall’impasto prevalentemente argilloso, con inclusioni di scheletro e scisti. Dal 2015 il vino compie fermentazione spontanea in barrique aperte con presenza per un 10% del grappolo intero, una maturazione di circa 18-20 mesi in tonneau e barrique nuove, un affinamento in bottiglia per almeno un anno. L’etichetta vede sfrecciare una Jaguar d’epoca (la Mk IV) in mezzo ai vigneti.

Il 2017 – prodotto in sole 880 bottiglie, quando la tiratura media è di 2500 – ha colore porpora fitto, ma non tale, ed è una ricorrenza cromatica del vino, da non lasciare spiragli di lucentezza su bordi e all’interno (non è insomma un colore monolitico). I profumi rimandano alle spezie, al mirto, alla frutta nera (mora), ai toni scuri della grafite, al pepe. Il palato è denso, ricco, maturo, compatto.

Il 2016 ha naso più cangiante, più fresco, il cui l’elemento boisé non comprime, specie a distanza di tempo, le soffuse elargizioni di macchia mediterranea, ginepro e mirto che questo rosso, nelle sue migliori versioni, è capace di offrire. La bocca è matura, definita, flessuosa, speziata, con note finale di erbe.

Il 2015, sempre scandito da una tinta porpora screziata sui bordi da un rubino-amaranto, ha olfatto fresco-esuberante, con note di spezie, sandalo e macchia mediterranea, e un palato ricco, denso, alcolico, ma con equilibrio e temperamento.

Il 2013 – vinificato da Luciano Bandini con fermentazione controllata in acciaio, rimontaggi al posto delle follature, e maturazione in legno nuovo solo per il 30% – ha profumi spaziosi e tostati, tra il legno e la macchia, un palato corposo-succoso nella trama, un frutto maturo e carezzevole, con note conclusive di frutta sotto spirito.

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Contributi fotografici dell’autore, eccetto foto “d’epoca” di Hideyuki e vista sull’azienda.

 

 

 

 

 

 

 

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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