

Non tornavo nella terra dei padri, dappoiché per metà sono siculo e di più etneo, da poco prima della pagina bianca della pandemia. Pagina bianca per i sopralluoghi vinosi, ovviamente. Ho trovato il panorama in buona sostanza come me lo ricordavo. Dal 2019 a oggi il vulcano continua a fare il vulcano, come mi ha confermato un geologo del posto: nonostante il considerevole lasso di tempo trascorso.
Continua a mutare, invece, il contesto vitivinicolo. I nuclei produttivi sono arrivati alla considerevole cifra di circa 170 unità. Con un bemolle, dal momento che – mi dicono fonti ben informate – una percentuale non marginale di queste nuove realtà non ha vigne né strutture di cantina, ma si appoggia a terzi per l’imbottigliamento.
L’Etna somiglia quindi ancora di più ad aree più ricche di storia, e soprattutto più ricche di soldi quando si giunge al dunque per vendere terreni vitati: qui alcune parcelle hanno toccato la bella somma di 250mila euro all’ettaro. Me la sussurrano, come informazione, perché se si tratta di parlare di denaro cala una forma di rispetto arcaico. Ma, aggiungono come vaticinio, piano piano molti piccoli produttori venderanno, in favore di aggregazioni proprietarie sempre più estese. Vedremo.
Ho girato per vigne, ho sudato come fossi a metà luglio per le temperature simil-estive (eh, il cambio climatico), ho goduto il paesaggio multiforme del versante nord – il più affollato di proprietà, direi a questo punto saturo e inattaccabile anche dal grande capitale -, ho assaggiato qualche vino appena fatto, altri delle ultime due vendemmie. Spero di scriverne prossimamente.
Nel frattempo trascrivo alcune impressioni su un bianco che non avevo mai bevuto, il Carricante Alberelli di Giodo 2020. Non ho potuto purtroppo assaggiarlo del tutto sgombro da pregiudizi, dal momento che chi me lo ha offerto ha subito precisato il nome del produttore, Carlo Ferrini.
Una vecchia conoscenza, enologo celebre, che non vedo e non sento da almeno cinque lustri. Cioè più o meno da quando il mio storico sodale Ernesto Gentili, io, l’esperto e attento Fernando Pardini e altri della vecchia squadra espressica siamo stati rubricati da ampie parti dell’establishment tosco come pericolosi estremisti della penna (allora si usava ancora la penna, residualmente).
I pregiudizi, che ho cercato di “estromettere dalla sfera dell’io”, riguardavano lo stile dei rossi del Nostro, che al tempo dei miei ultimi assaggi, molti anni fa, non suscitava in media il mio entusiasmo per la chiamiamola generosa estrazione tannica e la gagliarda pienezza del sorso. Ma tanto tempo è passato, mi sono detto, cerca di valutare questo bianco con spirito equanime. Non a caso, mi hanno riferito i più aggiornati, i rossi di Carlo Ferrini oggi borgognoneggiano, addirittura. Vedi, a non aggiornarsi?
E così ho annotato: colore invitante, luminoso, giallo pieno senza essere saturo; poca espansione aromatica – e in un bianco di queste parti ci sta – ma grande pulizia e piacevole fiumicello carsico di sentori minerali; sapore dapprima abbastanza lento, senza grande vivacità, appena venato di toni dolci, ma poi, con l’aria, via via più fresco e dinamico. “Un buon sorso”, come ha sentenziato un mio vicino di tavolo.
Concordo.
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