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E continuavano a chiamarli Super Tuscan/1. Sangiovese mood: le nuove annate, le riflessioni, i grandi classici (e non solo)

Sui Super Tuscan è già stato scritto e detto ‘gnicosa, e forse anche di più. Tutto il meglio e tutto il peggio, a seconda delle “campane” e dei momenti storici. Se qualcuno però, più o meno ingenuamente, dovesse chiedersi -e chiederci- se esistono ancora, la risposta sarebbe “certo che sì, vivi e vegeti”, ed è una risposta che basta e avanza.

Le concause che portarono ad elaborare vini di tale genìa sono state snocciolate ben bene da tante autorevoli voci, e poi la storia parla di per sé, per cui apparirebbe quantomeno ripetitivo soffermarsi ancora una volta su quella roba lì; interessante semmai è sintetizzare ciò che resta oggi alla base di quelle scelte, e chiedersi se i vini appartenenti a questa categoria siano ancora da intendersi come dei reali “atti di forza” in termini di eloquenza espressiva, rispetto a quelli che ricadono sotto la DOC (o DOCG) di pertinenza, oppure se occorra fare dei distinguo.

Interessante cioé sarebbe domandarsi se rappresentino sempre e comunque il meglio delle caratteristiche di determinati vitigni in determinati luoghi, o se sotto sotto – a volte – non vi si nasconda il “vibrione” dell’omologazione e dell’anacronismo.

Ma se vogliamo tentare una sintesi, prima dobbiamo perlomeno ribadire il concetto che fondamentalmente un Super Tuscan, OGGI, è un vino che non ricade nell’ambito di nessuna denominazione di origine controllata o garantita (DOC o DOCG) per un paio di motivi prevalenti:

– “per forza”, in quanto che il vino, vuoi soprattutto per i vitigni che lo compongono, vuoi per particolari questioni territoriali, non potrebbe rientrare nell’ambito di una DOC (o DOCG) manco se lo volesse, e quindi di conseguenza non potrà che tirarsene fuori, nella stragrande maggioranza dei casi approdando nell’ampio bacino dei vini a IGT, che teoricamente rappresenterebbe una sorta di declassamento rispetto alla denominazione di origine, ma solo teoricamente! Nella prossima puntata tratteremo soprattutto di questi “esemplari” qua.

– “per scelta”, ovvero, sia pur potendo rientrare nell’ambito di una DOC (o DOCG) per appartenenza geografica, composizione varietale e modi di produzione, si è scelto deliberatamente di non sottostare a quei disciplinari, anche in questo caso approdando nell’ampio bacino etc etc….

Ecco, proponendoci di focalizzare l’attenzione sui Super Tuscan “per scelta” (uhei, intendiamoci, indipendentemente dalla categoria di appartenenza, per forza o per scelta, chiaro che in fondo sempre di scelta trattasi, e consapevole anche, ma la divisione è semmai funzionale all’angolazione che vogliamo dare al discorso), che comprendono molti dei protagonisti di questa puntata dedicata al Sangiovese, possiamo dire che se all’epoca della “sommossa” originaria dei Super Tuscan ( il grosso avvenne negli anni Ottanta, con qualche apripista più datato, leggi Vigorello di San Felice e Pergole Torte di Montevertine) la decisione di uscire dalla DOC poteva essere inquadrata come un consapevole atto di insubordinazione rispetto all’andazzo e alla claudicante considerazione vantata al tempo dalla DOC stessa per ragioni interne e/o congiunturali del tutto fondate, oggi come oggi più raramente se ne ravvede l’esigenza, dal momento in cui quelle stesse denominazioni (principalmente Chianti Classico) hanno nel frattempo recuperato ampiamente prestigio e notorietà, includendo al loro interno grandi firme e un bel numero di vini qualitativamente all’altezza, quando non esemplari.

Quindi cosa è che muove un produttore toscano, oggi, a uscire con un vino fuori dalla DOC (o DOCG) di pertinenza? La risposta appare quasi obbligata, quantomeno nella grande maggioranza dei casi: la convenienza economica, il fatto cioè di poter strappare prezzi più alti rispetto al prezzo medio dei vini appartenenti alla DOC (o DOCG).

Un’apparente contraddizione in termini, o così sembrerebbe, dal momento che nella piramide qualitativa per come istituzionalmente intesa il vertice sarebbe occupato proprio dalle DOC o DOCG. E a supporto di tesi aggiungo anche che forse non è un caso se a Montalcino la presenza di vini a IGT “per scelta” sia sparuta o residuale, orientata perlopiù sui vini d’entrata, anziché su vini ambiziosi.

Ecco, le reti le abbiamo gettate, cerchiamo di raccogliere qualcosina. Nel carnet di degustazione che segue troverete elencati nomi chiantigiani che hanno fatto la storia dell’enologia toscana (e italiana tout court). Fra gli apripista, o comunque fra i primattori, annoveriamo Le Pergole Torte, Flaccianello, Cepparello, Fontalloro, Percarlo, I Sodi di San Niccolò, Anfiteatro, Sangioveto di Monsanto etc, vini cioé che anche a distanza di decenni da quei fatti là -badate bene- sono rimasti al difuori della denominazione. Rari i casi di rientro nei ranghi: ricordo il Grosso Sanese di Podere il Palazzino (e ho gioito per quella scelta), diventato nel frattempo un Chianti Classico Gran Selezione, ma non me ne vengono in mente poi altri.

A parziale discolpa c’è da dire che quelle etichette scontano un pregresso importante, hanno fissato paletti qualitativi un tempo impensabili all’interno della denominazione, e hanno funzionato da esempi e da guida, conquistando le attenzioni del mondo grazie esclusivamente al loro nome. Probabilmente i produttori in questione trovano ancora difficoltà ad inserire la menzione Chianti Classico in etichetta, non so se per timori di incomprensione o altro (sminuirne la portata evocativa o la reputazione?), certo è che l’eventuale “riposizionamento” costituirebbe un segnale fortissimo per la denominazione, in un’ottica di (ri)valutazione sui mercati, visto e considerato che da qualche stagione è stata pure creata, quasi si trattasse di un naturale approdo, la menzione Chianti Classico Gran Selezione, dove si potrebbero fra l’altro far valere prezzi più importanti. Cos’é, ancora non si ripone abbastanza fiducia nell’appeal della denominazione, al punto da lasciare i “pezzi” migliori al difuori di essa?

C’è un ulteriore però, e il però sta racchiuso in un personale “tarlo” sottolineato dalla domandina di cui sopra, e che qui ripropongo: “interessante sarebbe domandarsi se tali vini rappresentino ancora il meglio delle caratteristiche di determinati vitigni in determinati luoghi, o se sotto sotto non vi si nasconda, a volte, il “vibrione” dell’omologazione e dell’anacronismo”.

Potrei rispondere in due modi: o con le parole delle note di degustazione seguenti, confidando nella loro comprensibilità, o con una ulteriore constatazione che mi brucia dentro e che non riesco a trattenere. Per sottolineare, in fondo, che esistono diverse verità all’interno della tipologia, dal momento in cui vi si possono incontrare degli autentici fuoriclasse per forza evocativa, capacità di dettaglio, tipicità, misura estrattiva e naturalezza, e al contempo altri testimonial che mi pare continuino ad affidare le proprie sorti espressive all’esaltazione dei parametri prestazionali, cioé a mostrare sempre un di più rispetto a quel che occorre (maturità di frutto, estratti, rovere, densità, avvolgenza).

Io penso invece che l’autorevolezza acquisita dai migliori vini toscani della contemporaneità vada estraniandosi sempre più da quelli che fino a poco tempo addietro venivano indicati come gli ineludibili parametri della qualità. Perché la caratterizzazione sta altrove, e non abbisogna di parametri “prestazionali” a supporto.

Ecco, il bello è che all’interno di questa categoria ci troviamo la meraviglia, l’esempio, l’archetipo, che a mio modo di vedere significa esaltazione dell’essenza, e poi tutto un corollario di vini ambiziosi, sicuramente irreprensibili dal punto di vista formale, più o meno tendenzialmente ammiccanti verso certi gusti, ma che soprattutto non sembra siano così interessati alle ragioni dell’equilibrio e della mera bevibilità.

Intendiamoci, tanto per evitare fraintendimenti: io non auspico la trasformazione di ogni vino in Chambolle-Musigny, che sarebbe pur sempre un imprudente tentativo di essere altra cosa da sé stessi, ma auspico e propugno un ritorno alla misura e alla trasparenza espressiva, che in molti casi mi ritrovo ad apprezzare maggiormente nei vini rimasti fedeli alla denominazione d’origine (e che con ogni probabilità costano anche assai meno). E se si parla di robustezza benissimo, che si parli di robustezza vera però (o di visceralità, o di potenza), ma senza sovrastrutture e senza orpelli: così, per come si è.

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SANGIOVESE MOOD

BADIA A COLTIBUONO – SANGIOVETO 2016 (sangiovese – Gaiole in Chianti)

Ricavato dalle vigne più vecchie di Monti in Chianti, possiede un’anima da Sangiovese conclamata, con la profondità e l’eleganza boschiva dei migliori esemplari della specie, e con i primi terziari ad affacciarsi garbatamente, aprendo il varco ad una espressività non urlata, composta, signorile.

CAPARSA – MIMMA 2019 (sangiovese – Radda in Chianti)

Un tappeto di rose sul quale il vino si distende con classe. Grande profondità, ottimo supporto acido, progressione incalzante, finale lunghissimo, slanciato e puro. Poche edizioni alle spalle, e Mimma punta già dritto al cuore.

CASTELLARE DI CASTELLINA – I SODI DI SAN NICCOLO’ 2019 (sangiovese; malvasia nera – Castellina in Chianti)

La materia non manca: è ricco, sostanzioso, dall’incedere lento, finanche un po’ macchinoso al momento dell’assaggio; e se il rovere appare in fase digestiva, il brillante grado di contrasto acido-tannico ne certifica la gioventù, blindando il futuro.

CASTELLO DI MONSANTO – FABRIZIO BIANCHI SANGIOVETO GROSSO 2018 (sangiovese – Barberino Tavarnelle)

Incisioni di grafite e petrolio screziano profumi di seducente matrice floreale, e nonostante ciò l’anima sfumatamente varietale non ne resta compromessa. Ancora un po’ indietro in termini di piena disinvoltura, quello sì, ma sapore, naturalezza espressiva e fondamentali ci raccontano di un vino cangiante e sincero.

FATTORIA CORZANO E PATERNO – I TRE BORRI 2019 (sangiovese – San Casciano in val di Pesa)

E’ un certo ardore alcolico a portarne in emersione i profumi e a veicolarne il dettaglio sottile, e quindi il fascino. Anche perché ne percepisci la naturalezza, testimoniata da quel fondo iodato e puro. Non per questo si mostra carente in acidità, acidità che sostiene il giusto e che dà tensione, per un sorso che si concede a un’asprezza un filo più astringente nel finale, dove la voce tannica si arrochisce un po’.

FATTORIA DI LAMOLE – LE VITI DI LIVIO 2015 (sangiovese- Lamole, Greve in Chianti)

Dalle vecchie viti piantate su piede franco negli anni ’70 con il clone sangioveto di Lamole, se ne esce un vino di razza fina e tono aulico, dove freschezza e purezza concorrono a delineare un sorso raffinato e scorrevolissimo, dal gran tannino e dall’eccellente potere evocativo. Lamole sugli scudi.

FELSINA – FONTALLORO 2019 (sangiovese – Castelnuovo Berardenga)

Impostato su uno stile assertivo, dove consistenza fruttata, spessore gustativo e rovere giocano ruoli di primo piano, risulta un po’ macchinoso nella dinamica, con una sensazione di dolcezza accentuata e un disegno ancora da illimpidirsi. Dopo l’amore sincero che ho nutrito per questa etichetta, e che ha scandito la mia (e la sua) gioventù, non posso non confessare la mia distanza nei riguardi delle versioni più recenti.

FONTODI – FLACCIANELLO DELLA PIEVE 2019 (sangiovese – Panzano, Greve in Chianti)

Altro storico protagonista della genìa dei Super Sangiovese, il Flaccianello della contemporaneità si offre oggi secondo un profilo voluminoso, alcolico, maturo, dai risvolti terrosi e balsamici, che quantomeno nelle prime fasi della sua parabola vitale non lascia troppo agio al garbo o alla distensione. Saranno gli effetti dei cambiamenti climatici, o il fatto che la Conca d’Oro panzanese spinge di per sé su alti parametri (struttura, alcol, acidità…), ma l’idea che vi sia a supporto anche una precisa volontà stilistica resta.

ISOLE E OLENA – CEPPARELLO 2019 (sangiovese – Barberino Tavarnelle)

Una certa sovraesposizione del frutto (maturo) gli rende un dipiù di dolcezza e di appariscenza volumica; il tannino incisivo (ma di buona fattura) e il contributo del rovere speziato (che ancora si fa sentire) non concorrono per adesso all’equilibrio ottimale. Governato da una puntuale accuratezza e annunciato da una setosa tattilità, a mancargli semmai è la disinvoltura.

LA MONTANINA – NEBBIANO 2018 (sangiovese – Gaiole in Chianti)

Dietro le risonanze crepuscolar-autunnali nel comparto dei profumi si cela un vino modulato nei toni e ben raccordato nella trama, la cui tensione gustativa è provvidenzialmente ravvivata dai risvolti acidi e agrumati. Pur conoscendolo da poco, e non per quanto vorrei, Nebbiano dà la sensazione di essere un vino “di bocca”, e in fondo è ciò che il particolare terroir da cui proviene (Monti in Chianti) solitamente concede ai suoi frutti. Quindi territoriale è dir poco.

MICHELE SATTA – CAVALIERE 2019 (sangiovese – Castagneto Carducci)

Si spariglia, approdando sulla costa livornese, con una etichetta a suo modo “stoica”, e storica, nata e cresciuta in un contesto per sua costituzione refrattario verso certe tipologie di vini. Ed ecco che in questa versione rivisitata (lunghe macerazioni, legni grandi) Cavaliere sciorina fondamentali eleganti e un brillante timbro varietale che tende ad apparentarlo ai suoi consanguinei chiantigiani, se non fosse per quel pizzico di calore in esubero e per un incedere più largo, senza che questo ne pregiudichi il garbo e la giustezza. Lodevole, ad esempio, la qualità del tannino.

MONTERAPONI – BARON’UGO 2018 (sangiovese; canaiolo, colorino – Radda in Chianti)

Vino montano se ce n’è uno, è dritto, succoso, stilizzato, agrumato, tesisissimo, sospinto e sostenuto da una acidità vibrante e pervasiva. Non ne percepisci il gradino tannico, casomai una freschezza étonnante e una pregevole misura di passo. E’ il territorio che lo marchia a fuoco.

MONTEVERTINE – MONTEVERTINE 2019  (sangiovese; canaiolo, colorino – Radda in Chianti)

A proposito di acidità: ma siamo certi che dell’acidità non se ne possa “misurare” la qualità intrinseca? In questo caso ad esempio io la trovo bellissima: dà slancio alle trame e croccantezza al frutto, e sembra proprio come incisa nella polpa cristallina e calibratissima di questo vino librato, annunciato peraltro da uno struggente respiro floreal-minerale.

MONTEVERTINE – LE PERGOLE TORTE 2019 (sangiovese – Radda in Chianti)

Come sempre più baritonale e introverso rispetto al Montevertine (a parità di stato evolutivo), sotto la materia densa e levigata cova un’incredibile energia, che alimenta un sorso profondo, di infiltrante sapidità e rara compiutezza. Il futuro di certo non lo spaventa, e lo capisci da subito.

PODERE POGGIO SCALETTE – IL CARBONAIONE 2019 (sangiovese – Ruffoli – Greve in Chianti)

Dolcezza di frutto (e di rovere), pienezza strutturale e densità di materia ne segnano la dimensione gustativa, concretizzando un profilo di ricercata levigatezza tattile, di manifattura tecnica “consapevole”, e con un dipiù di dolcezza in corpo. C’é chi dal macigno di Ruffoli, e dalle sue giaciture d’altura, si attenderebbe un Sangiovese più ricamato e sottile.

RIECINE – LA GIOIA 2018 (sangiovese – Gaiole in Chianti)

Belle proporzioni, ottima naturalezza espressiva, finezza di trama, scioltezza di passo. Appena stretto nel finale dal tannino, ma è giovane, e si farà.

RIECINE – RIECINE DI RIECINE 2019 (sangiovese – Gaiole in Chianti)

Arioso, interiorizzato, essenziale nel senso di essenza, è come una carezza. Possiede un “sentimento” chiantigiano incorrotto, nobile e puro, e l’impalpabile consistenza di una nuvola. Dalla vecchia vigna di Riecine.

SAN GIUSTO A RENTENNANO – PERCARLO 2018 (sangiovese – Gaiole in Chianti)

Saldezza granitica e robusta costituzione sono la sua firma, ma in questa edizione appaiono come stemperate da una attitudine più manifesta al dialogo e all’eleganza. Non presenta significative intemperanze; il rovere, a fargli le pulci, ne comprime leggermente la persistenza, ma per flessuosità di trama e garbo espositivo si farà ricordare a lungo.

TENUTA DI CARLEONE – IL GUERCIO 2020 (sangiovese – Lamole e Radda in Chianti)

Candore, succosità, e una naturalezza disarmante. Irresistibile, aggraziato, di sottile filigrana e carezzevole tattilità, le sue uve provengono in parte da Lamole, in parte da Colle Petroso (Radda), da giaciture attorno ai 650 metri. Il suo passaggio è come un soffio.

TENUTA DI CARLEONE – UNO 2019 (sangiovese – Radda in Chianti)

Grande materia e grande profondità per un vino che unisce saldezza ed eleganza con pregevole disinvoltura. Tanta mineralità sottocutanea e tanto sale, lasciti preziosi in grado di esaltarsi in un finale incredibilmente arioso.

VECCHIE TERRE DI MONTEFILI – ANFITEATRO 2018 (sangiovese – Greve in Chianti )

Una versione inaspettatamente materica e viscosa di Anfiteatro, ciò che ne impedisce al momento la dovuta articolazione. Saldezza e seta tattile di certo ne affermano la confezione curata, anche se dalle alture e dai galestri dell’anfiteatro di Montefili dovremmo attenderci più sfumature che non asserzioni.

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One Comment

  • Angelo Cantú ha detto:

    Grazie per questa bellissima presentazione che mi sento di condividere in toto. L’anima chiantigiana è tutt’altra cosa dallo stile “internazionale” di tanti supertuscan che lascio volentieri a chi ha voglia di spendere senza porsi troppe domande. Sarebbe bello che qualche campione di “chiantigenicità”, penso ai vini di Montevertine e non solo, ritornasse a fregiarsi di questo glorioso nome.

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