Per una liberazione del vino

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Il vino è un oggetto/soggetto che gli enofili rischiano a ogni curva di sacralizzare, ed è un rischio. Come nel cosiddetto culto dell’harem* si può arrivare a percepire come scopo finale la propria collezione di bottiglie, e non il piacere che se ne ricava.
Le frange più estremiste vivono il vino come culto tout court, un surrogato della religione. E nemmeno tanto surrogato, a giudicare dai commenti incendiari che esplodono dai vari social quando qualcuno osa criticare un dato produttore o una data etichetta.

In non rari casi non si avvertono significative differenze tra un fanatico integralista che si scaglia contro l’autore di una vignetta satirica, augurandogli la morte, e l’appassionato di vino che inveisce contro chi critica il suo rosso preferito.
Sorge quindi una domanda rilevante: nonostante la magnitudine vertiginosa degli addentellati storici, filosofici, sociologici, antropologici, archeologici, termoidraulici, religiosi, laici, agnostici, modaioli, ragionieristici, sensoriali, culturali in generale, che il vino porta con sé, è possibile vederlo come un semplice oggetto della tavola? È possibile sottrarlo al piedistallo della moda, alla sua spettacolarizzazione?
Anzi, meglio: è non soltanto possibile, ma anche raccomandabile?
La mia risposta è un sì convinto.

E non per una fraintesa civetteria da bevitore annoiato: proprio perché è più salutare, in questa massa di informazioni viniche che ci mitraglia ogni giorno in modo indistinto, spesso ergendo il vino a oggetto “di lusso”, “che sorprende”, ma anche “esclusivo”, “originale”, “non omologato” (“famolo strano”, detto alla romana).
Pochi giorni fa Marco Bolasco, noto e stimato critico gastronomico, scriveva, parlando della deriva dell’alta ristorazione:

(…) emerge il tema dell’insostenibilità di un sistema basato sull’effetto “WOW” e sul teatro che domina sul contenuto. Qualcosa di molto più problematico della tecnica che prevale sull’ingrediente.

Il fine dining si è pericolosamente allontanato dal consumatore in un loop che tanto ricorda quello di altri settori che non riescono più a parlare con “la gente”. (…) È che l’effetto “WOW” ha poi bisogno di uno “WOW” ancora più estremo e forte. E si va a sbattere contro un muro: è questo ciò che dissero Adrià e Soler quando chiusero.
Siamo fermi da vent’anni, insomma. Ma tra 50Best, Michelin e MasterChef non ce ne siamo accorti e, un po’ dopati, siamo andati avanti belli tronfi, tutti.
(…) Si comincia già a dire che le vere novità, la vera rivoluzione si vede nelle trattorie. C’è sicuramente del vero ma un’altra inutile contrapposizione sarebbe una cura peggiore del male. Che ci si confronti, invece, anche a partire dalla freschezza e dalle belle idee che, in Italia, stanno emergendo dal basso e da una ristorazione di qualità e inclusiva.
Concretezza e inclusività sono le parole del futuro, altro che “esclusivo”.

Liberare il vino dall’aura di personaggio famoso che lo avvolge, restituendolo alla sua dimensione originaria di semplice prodotto della terra, non significa sminuirne o peggio azzerarne la complessità simbolica. Che rimane, in tutte le sue declinazioni. Significa accettare la sua duplice natura, come ho già scritto altrove:

Il vino è un oggetto semplice? si risponde: sì.

Il vino è un soggetto complesso? si risponde: sì.

È un oggetto semplice perché è alimento e bevanda primordiale, come il pane a tavola.

È un soggetto complesso perché è al centro di un fitto reticolo di rimandi simbolici, storici, sensoriali, antropologici, e chi più ne ha più ne metta.

Molti addetti ai lavori – produttori, distributori automatici, enotecari, bloggaroli, eccetera – ignorano la sua complessità e ne vedono solo il lato mercantile e, orrore, modaiolo. Molti teorici/discettatori/officianti/spaccatori-del-capello-in-sedici, all’opposto, si perdono in minuzie bizantine e divengono incapaci di ritrovarne la semplicità.

Qual è allora l’approccio giusto? non esiste “l’approccio giusto”. Esiste solo il rispetto della dualità del vino, oggetto semplice e soggetto complesso, e la ricerca di un equilibrio mobile tra queste due polarità. Polarità che il vino, in misura misteriosa e quasi insondabile, tiene insieme in un’unità perfetta.

___°___

* termine coniato, a quanto mi risulta, da Wilhelm Stekel (1868-1940), psicanalista austriaco: “il feticista gestisce la sua collezione come un pascià che ogni giorno sceglie la sua favorita”.

Fabio Rizzari

Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

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Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

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