Universo Sardegna/1: Mamoiada e il suo Cannonau

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In effetti una cosa così non c’era mai stata. Mai una degustazione aveva coltivato l’ambizione di esporre un panorama onnicomprensivo della produzione vinicola sarda, nemmeno quelle svoltesi nell’isola stessa. Una lacuna innanzitutto conoscitiva, che l’idea del vino della Sardegna per l’appassionato non si discosti tuttora un granché dalla diarchia Cannonau-Vermentino, semplicismo peraltro nefastamente associato al preconcetto del rosso isolano come pesante nel corpo e nell’alcolicità, nonché monolitico nel comparto aromatico.

Un plauso quindi all’amico giornalista Maurizio Valeriani, direttore del sito vinodabere.it, promotore di una guida on line dei vini isolani, romano per caso, certamente sardo nell’anima, per aver finalmente organizzato a Roma un evento (termine spesso abusato, ma non in questo caso!). Cooperative, cantine piccole e grandi, viticoltori “garagisti” si sono uniti al di là dei campanili e delle (eventuali) invidie personali per promuovere la causa del vino sardo: una volta tanto non l’un contro l’altro armati, bensì alla ricerca di un riconoscimento da parte del pubblico, e anche da parte di loro stessi; un riconoscimento quanto meno doveroso, stante la qualità diffusa che abbiamo avuto l’opportunità di degustare.

Hanno fatto da corollario tre seminari che hanno approfondito le caratteristiche di altrettanti comprensori iconici: l’espressione del Cannonau a Mamoiada, gli uvaggi del Mandrolisai, il Carignano a piede franco del Sulcis (a proposito, la Sardegna è la regione con la maggior quantità di vigne a piede franco di tutto il Paese!). Su di essi mi sono basato per una breve carrellata di quello che son riuscito ad imparare e a capire: un inadeguato tributo a una regione, e a una produzione enologica, che al cuore e alle emozioni degli appassionati sanno regalare molto di più di quanto sia stato loro concesso finora.

Esiste una “metropoli” di 2.200 abitanti, sperduta in mezzo ai monti della provincia di Nuoro (a proposito, attenzione a come lo pronunciate: non è “Nuoro” come in Italiano, quello è un altro posto, ammesso che esista; invece occorre prolungare il suono della ‘U’, come se fosse il centro di tutto: dopo tutto, non è anche l’iniziale di “Unicità”?); è una metropoli perché si è collocata nel mondo grazie alla produzione del suo vino, ovvero grazie a un’usanza indubbiamente ancestrale.

In effetti, dietro le spalle di tutti quelli che lavorano in vigna, stanno a giudicare i fantasmi degli antenati, gli stessi che invadono festosamente le strade del paese a Carnevale. Le maschere abnormi di cui si adornano ricordano le rughe della fatica del lavoro di generazioni e generazioni di persone, la fatica della costruzione di una sapienza di cui i giovani si avvalgono per confermare il loro proposito: non voler vivere in nessun altro posto se non lì.

Mamoiada è una metropoli nella quale al bar, dopo il caffè del mattino, o tra un bicchiere di Cannonau e l’altro, non si discute dei risultati del campionato di calcio, bensì di chi pota meglio la propria vigna. E dove su 2.200 abitanti si contano 230 produttori di vino (non è un refuso, proprio 230!), e gli imbottigliatori proliferano come i funghi dopo una pioggia caduta al momento giusto: adesso siamo a 40, di cui 33 membri della battagliera associazione Mamojà (www.mamoja.it), che fa gruppo nel senso virtuoso del termine mettendo a disposizione di tutti un sapere che logica vorrebbe essere comune, innescando un circolo virtuoso fatto anche di produttori artigianali di strepitosi formaggi ed altre ghiottonerie che trovano spazi di visibilità in abbinamento con il vino. E che contempla pure un’enoteca pubblica che ospita un ristorante dove il viaggiatore può effettuare uno stress test (sempre positivo!) sulla strepitosa bevibilità dei vini di Mamoiada. E dove tra l’altro -probabilmente- si fa il vino sfuso più buono dell’universo mondo (perché chi si spezza la schiena in vigna, innanzitutto, quel vino così sudato vuole anche berselo).

E’ inutile che altre zone vinicole rivendichino questo primato, qui concorrono numerosi fattori: vitigni generosi nel corpo e nella complessità aromatica (oltre al magnifico Cannonau non dimentichiamo i bianchi saporiti e “masticabili” a base Granazza), che ben sanno affrontare situazioni siccitose estreme senza abdicare al loro intrinseco equilibrio (si contano acidità fino a 7 gr/lt!.). Mettiamoci poi ventilazione e altitudini (le vigne più audaci arrivano a 700 mt slm), una coltre boschiva che contribuisce ulteriormente a rinfrescare il microclima, migliaia di anni di orgoglio contadino e di conoscenza del territorio brevi manu, suoli drenanti, varietà di esposizioni, piante ultracentenarie e maestosi alberelli (perlopiù), e tutte quelle altre formule che riempiono a volte più le brochure aziendali che non i bicchieri: non a Mamoiada.

In sintesi, Mamoiada è il luogo dove tutti gli stereotipi sul vino sardo vengono cancellati con maggiore facilità. Stante il terroir, ivi inclusa la sapienza contadina e il genius loci, il Cannonau abdica all’immaginario di orco iperalcolico e sgraziato esibendo freschezza, profondità sapida, coté balsamico, agrumato ed ematico, e tutte le spezie che si possono desiderare.

E gli appassionati trendy si strappano di mano bottiglie prodotte in quantità omeopatiche, mentre l’associazione diffonde esperienze e conoscenze e non c’è il timore di confrontarsi con stili ed impostazioni di vinificazione diverse. Si vedono gli enologi, e i vini se ne giovano, senza perdere però di personalità. E questa reciproca interazione rafforza la consapevolezza di stare sulla stessa piccola, preziosa barca, che ha bisogno della convinzione di tutti per navigare nel e verso il mondo. Che già il mondo viene a Mamoiada, facendo tesoro di ricordi di ospitalità, verità e intelligenza.

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Francesco Cadinu (www.francescocadinu.it/), Cannonau di Sardegna Ghirada Elisi 2020: colore giovane e lucente di media profondità, naso esuberante di confettura di ciliegia e fragola, con un’idea di dolcezza che richiama quasi la pasticceria ma che però sfuma su richiami balsamici di macchia mediterranea, con un tono agrumato sullo sfondo. Palato per adesso meno sfumato epperò saporitissimo, fresco, largo, in slanciato allungo sulle componenti più mature dello spettro aromatico. Torna la macchia mediterranea nel magnifico finale, e a dispetto della polpa, la beva è strepitosamente accattivante. L’altra etichetta, Ghirada Fittiloghe (Ghirada è il termine che indica un cru, a Mamojada), è ancora più fragrante e ma presenta un tannino più assertivo, quindi richiederà probabilmente più tempo per un completo dispiegarsi delle sue potenzialità.

Cantina Mertzeoro – Melchiorre Paddeu (www.cantinamertzeoro.com), Barbagia  Rosso IGT Ghirada Baduorane 2021: colore di bel tono giovanile, più profondo della media; naso variegato, di ciliegia fragrante e mora in confettura, ma l’idea è che non si sia ancora dispiegato del tutto, per difetto di gioventù e/o di ossigenazione; al palato è salda ma non strappata la presa del tannino, larga la percezione fruttata, splendità la sapidità che garantisce l’allungo. E’ un vino pieno, ma l’acidità integrata ne garantisce una beva sorprendentemente agile e aggraziata.

Teularju (www.teularju.it), Barbagia Rosso IGT Ghirada Ocruarana 2021: il sito web aziendale, tutto da leggere, dichiara che i vini sono fatti con il minimo indispensabile di interventi enologici, leggi travasi e baso uso di solfiti. Ma la godibilità non viene meno. Dal tono profondo del colore, al naso “scuro”, terroso, speziato, ma anche di ciliegia matura e macchia mediterranea, e con una caratteristica nota ematica. Il sorso è splendido per grip tannico, larghezza di frutto, freschezza. Il finale è di inappuntabile corrispondenza aromatica. Insomma, dalla magnifica integrazione di tutte le componenti ne scaturisce una beva di vera soddisfazione.

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Immagini gentilmente concesse dalla associazione Mamojà.

Riccardo Margheri

Sono oramai una ventina d’anni che sto con il bicchiere in mano, per i motivi più disparati, tra i quali per fortuna non manca mai il piacere personale. Ogni calice mi pone una domanda, e anche se non riesco a rispondere di certo imparo qualcosa. Così quel calice cerco di raccontarlo, insegnando ai corsi sommelier Fisar, conducendo escursioni enoturistiche, nelle master class che ho l’onore di tenere per il Consorzio del Chianti Classico; per tacere delle mie riflessioni assai logorroiche che infestano le pagine web e cartacee, come quelle della Guida Vini Buoni d’Italia per la quale sono co-responsabile per la Toscana. Amo il Sangiovese, Il Riesling della Mosella, il Porto, ma non perdo mai occasione per accostarmi a tutto ciò che viene dall’altrove enoico. Vivo da solo e a casa non bevo vino, poiché per me il vino è condivisione: per fortuna mangio spesso fuori, in compagnia.

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